Quest’Italia in svendita è l’immagine plastica di un Paese profondamente in crisi, ostaggio di una classe dirigente le cui responsabilità sono enormi, e se possibile ancora crescenti, per l’incapacità dimostrata negli anni, gli ultimi venti almeno, di pianificare e realizzare una politica industriale degna di questo nome, con leader di partito e governi ad accapigliarsi su provvedimenti di corto respiro, e strategicamente perniciosi sul versante dei conti pubblici, come l’abolizione indiscriminata dell’Imu sulla prima casa o lo stop all’aumento dell’Iva.
Idee e promesse finalizzate alla cattura di un consenso momentaneo ed effimero, sebbene le condizioni dell’economia richiedessero ben altri e più incisivi provvedimenti. Tutto questo è avvenuto e avviene mentre nel resto d’Europa e del mondo le cancellerie si battono in ogni modo per tutelare il loro sistema produttivo-occupazionale, anche a costo di decisioni che sfiorano il protezionismo e qua e là sfidando anche gli strali di un’Unione europea che nei nostri confronti è più incline a imporre decisioni all’insegna dell’austerità e del rigore che a concedere qualche strappo alla regola per consentirci di rifiatare.
Ma per ottenere quello che gli antieuropeisti di casa nostra vorrebbero, sventolando la bandiera del dissenso “visto che a Francia, Germania e Gran Bretagna (che però non ha l’euro) certe cose sono concesse”, Roma dovrebbe riacquistare almeno un briciolo della credibilità perduta. Dell’affidabilità conquistata nell’immediato dopoguerra è stato fatto uno scempio in tanti anni di sciagurata politica-politicante, ripiegata sull’ombelico dei partiti, di rapporti malsani fra di essi e al loro interno, di riforme mancate, di una corruzione dilagante, di un’evasione fiscale diventata patto scellerato fra potere e contribuenti (che poi ne pagano però il dazio).
Anche in questi giorni, in queste ore, i due principali partiti della coalizione di governo – il Pdl/Forza Italia e il Pd - sono tutti concentrati a ristrutturarsi per giocarsi la partita del consenso anziché guardare con occhio vigile e mente lucida a ciò che di più urgente e necessario ha questo Paese. I segnali della deriva del declino erano arrivati forti e chiari, prima con una serie infinita di scandali, poi con la perdita di pezzi importanti del sistema produttivo: dalla Parmalat finita in mano a Lactalis, fino alle grandi griffe del lusso che il colosso francese Lvhm ha razziato nei mesi scorsi perché i nostri creatori di moda erano stanchi, sono parole loro <<di un Paese nel quale fare impresa è diventato impossibile>>.
Anche Alitalia sta per finire Oltralpe: lasciamo stare la Germania, che rimane un metro di paragone improponibile, ma sarà un caso che proprio Parigi ci dia questi schiaffoni? E sarà un caso che uno scacco matto (Telecom) ci arrivi persino dalla Spagna, che avremmo la pretesa di tenere – almeno essa - alle nostre spalle? In questo contesto si incastona il momento delle decisioni irrevocabili per la sorte delle tre Ansaldo. Per Energia c’è sulla porta di casa la coreana Doosan, per Sts sgomitano l’americana General electric e la giapponese Hitachi, mentre Breda non la vorrebbe nessuno. Su questa storia è l’ora di mettere un punto fermo e anche di mettere la sordina alle tante, troppe parole in libera uscita che dal mondo politico e da quello sindacale salgono per timbrare il cartellino di iniziative volte principalmente a garantirsi facile consenso o tessere di iscrizione da rinnovare. Il dato certo è che il governo ha incaricato Cassa depositi e prestiti di predisporre un’offerta per Ansaldo Energia e di aprire un dossier su Ansaldo Sts, tenendo in stand by Breda, ma senza dimenticarla. Per Energia in realtà è quasi tutto pronto: basta che Palazzo Chigi dia un minimo di garanzie e l’operazione si può fare, in un colpo solo assicurando l’italianità dell’azienda e imbarcando anche Doosan, cioè il partner industriale di cui la società genovese ha bisogno.
Anche per Sts cassa depositi può intervenire, in questo scenario: la proposta migliore è quella di General Electric, che però non vuole saperne di Breda, mentre Hitachi è disponibile a far entrare nella partita anche il malconcio costruttore di treni toscano. Se si guarda solo all’aspetto finanziario, il gruppo Usa si fa preferire, se invece si considera impossibile – per ragioni di tutela occupazionale, con le allegate ricadute sociali – abbandonare Breda al suo destino, l’interlocutore non può essere che quello giapponese. Finmeccanica chiede che si faccia presto e le sue fonti continuano ad affannarsi a spiegare che <<non c’è ragione per cui Piazza Montegrappa dovrebbe preferire la cessione secca della aziende agli stranieri anziché la soluzione che coinvolge Cassa depositi>>
IL COMMENTO
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