“Tenetemi, che sennò gli meno”. Matteo Renzi sta facendo esattamente la figura del bullo di quartiere, che mentre promette di passare alle vie di fatto sta in realtà indietreggiando per non affrontare il suo avversario. Una scena che nell’arco di poche ore si è ripetuta in modo imbarazzante in due circostanze principalmente: quando ha avuto di fronte la cancelliera tedesca Angela Merkel e dopo che il commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha annunciato le sue proposte di tagli alla spesa pubblica.
Nel primo caso ha supinamente accettato che la Merkel gli ribadisse l’irrinunciabilità del rapporto deficit-Pil al 3%, sebbene in precedenza, e successivamente, il nostro premier avesse fatto fuoco e fiamme contro quel nefasto numerino, definito “anacronistico” e all’attacco del quale proverà a muovere anche il Consiglio Ue. Nel secondo caso, invece, ha preso atto di quelle che sono le linee di risparmio di Cottarelli, ma s’è subito affrettato a precisare che “poi decidiamo noi”.
Entrambi gli episodi vanno esaminati un po’ più in profondità, pur partendo da un denominatore comune: Renzi ha un disperato bisogno di fare e non di affermare, perché questo è anche il disperato bisogno del Paese. Se vuole emendare il peccato originale di essere diventato capo del governo venendo meno all’impegno d’onore (“#Enricostaisereno”) di lasciar lavorare il suo predecessore Letta aspettando nuove elezioni per sostituirlo, la sola strada che Renzi ha davanti è realizzare i cambiamenti che ha promesso (pure questi…) senza offrire armi a chi non vuole che ci riesca (più di quanti si possa immaginare). Invece sta muovendosi nella direzione contraria.
Se pecora ti fai, lupo ti mangia. E allora non puoi andare dalla Merkel a gigioneggiare. Sull’euro, che non avrebbe voluto e dal quale in tutti i modi ha tentato di escluderci, facendoci pagare un concambio con la lira da “cravattaro” per accettarci infine nel club, la Germania ci sta lucrando e non mollerà niente fino a quando non troverà un “primo cittadino d’Italia” che andrà là a sbattere davvero i pugni sul tavolo. “Cara signora Angela, quel 3% se lo rimetta in tasca, altrimenti ci arrabbiamo e dall’euro ce ne andiamo noi, altro che ci sbattete fuori voi!”: quale sarebbe la reazione di Berlino a un discorso di tal fatta? Oggi si farebbe una risata, proprio perché l’Italia ha un deficit di credibilità che viene dagli anni di Berlusconi e poi dalla acquiescenza di Monti e Letta. Un gap che Renzi non si è finora mostrato in grado di superare, proprio per quell’atteggiamento da bullo di cui si diceva all’inizio. Eppure è sotto gli occhi di tutti che se l’euro non sarebbe stato in piedi senza la Grecia (non casualmente “salvata” sebbene a prezzo di enormi devastazioni sociali) men che mai sopravviverebbe senza l’Italia. Con in più il fatto, al lordo di tante nostre “magagne”, che noi abbiamo anche la forza di rimanere nel club della moneta unica senza dover soggiacere allo strozzinaggio subito da Atene.
Ma perché ciò avvenga, Renzi deve attuare la tattica, che poi diventa strategia, dei blitz. Ritiene che quel tetto del 3% si possa e si debba sforare? Bene, lo faccia, con il solido conforto di consiglieri economici avveduti e con mosse convincenti sia per il mercato finanziario (lo spread rimane un indicatore da tenere d’occhio perché si traduce in miliardi di interessi in più o in meno da pagare), sia per quello della politica europea. Ma lo faccia senza dirlo prima, altrimenti si fuma preventivamente ogni possibilità di successo.
La stessa regola il premier deve imporsela, a maggior ragione, sulle riforme interne. Che abbia presente la questione lo ha dimostrato mettendo in campo il concetto della velocità. Il nostro è un Paese che nei decenni – soprattutto quelli del dopoguerra – a corredo della pessima politica degli annunci ha sviluppato una capacità di interdizione da primato planetario. Non c’è progetto al quale non corrisponda un “fronte del no”. E tanto più tempo intercorre fra l’annuncio e il tentativo di tradurlo in concreto, tanto più l’interdizione si organizza.
E’ evidente che in un Paese normale i meccanismi decisionali dovrebbero essere condivisi e trasparenti, ma purtroppo il nostro non è un Paese normale. E siccome c’è la prova provata che l’emergenza non si supera con la logica delle larghe intese – foriera anch’essa dei veti incrociati che ingessano il sistema (l’abolizione dell’Imu sulla prima casa imposta da Berlusconi, con gli effetti collaterali negativi a tutti ben noti, è l’esempio più fulgido) – facciamoci almeno cogliere dal dubbio che sia necessario un ingrediente diverso: quello della riservatezza virtuosa.
Certo, estroverso e guascone com’è, il giovane Matteo deve fare violenza a se stesso per mettersi la sordina e non concedersi alle sue battute fulminanti, però mettere la briglia alle parole è un imperativo categorico. Altrimenti succede come quando spiega che, in materia di spending review, Cottarelli propone ma poi il governo dispone. Renzi, infatti, più che rivendicare l’onere e l’onore della scelta, sembra manifestare la debolezza di chi tende a tranquillizzare la platea politica e quella degli elettori, sia per tenere insieme una maggioranza spuria (e risicata al Senato) sia perché deve guadagnare almeno il 30% alle prossime europee (il premier dixit). Se le sue priorità sono queste, non coincidono con quelle del Paese. E minano la sua credibilità, già messa in crisi dall’aver disatteso quell’improvvido #Enricostaisereno. Di parola in parola, ciò che Renzi rischia di darci in concreto è solo la sua iscrizione al partito del galleggiamento. O pochissimo di più. Troppo poco, comunque, per impedire l’ennesima, cocente delusione.
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Europa e riforme, per Matteo Renzi la vera sfida è star zitto e fare
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