Il crollo in Borsa è arrivato puntuale. E i numeri sono da far tremare i polsi: -17,19% con il titolo quotato a 0,077 euro. Una miseria. A volte, però, i numeri non dicono tutto. Nel senso che la dimensione della perdita di giornata è direttamente proporzionale all’esito negativo degli stress test cui la Bce ha sottoposto le quindici banche italiane che passeranno sotto la sua vigilanza. E fra queste, appunto, Carige.
Ma perché le cifre della tremenda giornata in Piazza Affari non dicono tutto sul principale istituto di credito ligure? Intanto per una ragione molto semplice: circa un’ora dopo la “sentenza” arrivata dall’Eurotower, il consiglio guidato dal presidente Cesare Castelbarco Albani e dall’amministratore delegato Piero Montani hanno sciorinato le contromisure: ricapitalizzazione fino a 650 milioni, già garantita da Mediobanca, e vendita di alcuni asset (la cessione delle compagnie assicurative per circa 300 milioni è già scontata dal piano di riequilibrio).
Ad una lettura superficiale della performance in Borsa, dunque, bisognerebbe concludere che il mercato ha bocciato anche la terapia prevista dal top management. Ma più che attrezzarsi per racimolare la cifra occorrente a soddisfare lo stress test Bce elaborato con uno scenario economico da tregenda (è come immaginare il tracollo dell’intero Paese) che cosa avrebbero dovuto fare Castelbarco e Montani? Nient’altro, in realtà.
E allora la portata della batosta in Piazza Affari va letta nella logica di un depauperamento del titolo che risponde a obiettivi anche speculativi, mirati a mettere Carige nelle condizioni di essere una preda (più di quanto già non fosse) facilmente catturabile. Chi ha la forza finanziaria per farlo, e i soggetti che hanno simili disponibilità sono molteplici, oggi può portarsi a casa una banca importante e solida nei fondamentali con l’equivalente di un piatto di lenticchie. Volete che in queste ore convulse non ci sia chi sta brigando in tal senso? I momenti decisivi, ovvio, devono ancora arrivare, ma le grandi manovre sono già cominciate.
A quale approdo porteranno e con quali protagonisti è troppo presto per dirlo, ma non dimentichiamo che nella ricapitalizzazione da 800 milioni della scorsa primavera-estate c’è stato già qualche soggetto che si è mosso nell’ombra, attraverso Ubs. Quantitativi di azioni ancora minimi o abilmente frazionati per non incappare nell’obbligo di doversi dichiarare agli organismi di controllo, ma ragionevolmente bisogna ritenere che quelle sono state prove generali per la partita vera e propria.
Del resto, che quegli 800 milioni non bastassero era scolpito sulla pietra e qui la responsabilità primaria è in capo all’attuale azionista di riferimento, la Fondazione, che ha risposto picche quando Montani chiese che l’aumento di capitale fosse di 1,2 miliardi. La resa dei conti all’ombra degli stress test sarebbe stata di tutt’altra natura e quanti oggi si stracciano le vesti pensando ai piccoli azionisti dovrebbero ricordare che quell’operazione è stata portata avanti dall’azionista principale pensando prima di tutto a se stesso. Fondazione Carige non aveva i soldi per partecipare a una ricapitalizzazione più alta di quella realizzata: e perché, ora i soldi per il secondo giro li ha? No. E il risultato è che si diluirà fino ad un limite stimato intorno al 5% che la trasformerà in un socio marginale.
Venerdì si comincerà a capire quale strada la Fondazione vuole imboccare, ma l’ente guidato da Paolo Momigliano - e ostaggio tuttora di un consiglio di indirizzo partorito dalla peggiore politica spartitoria – farà bene a tesaurizzare l’esperienza degli errori commessi. Due su tutti: cedere direttamente sul mercato una parte della propria quota e annunciare urbi et orbi che avrebbe fatto una vendita ulteriore. Siccome il mercato finanziario non è popolato da orsoline, ma anche da veri pescecani, come si poteva immaginare che quel modo di procedere e quegli annunci non avrebbero avuto effetti letali sul titolo? Non esiste, infatti, che il corso azionario non abbia avuto sussulti e una vera ripresa di fronte alla cura da cavallo imposta dal duo Castelbarco- Montani. Cessioni di asset, riorganizzazione e ristrutturazione aziendale sono normalmente pane zuccherato per chi “gioca” in Borsa. Se con Carige non è accaduto, interrogarsi è un dovere, non un esercizio di pura accademia. E la risposta riconduce sempre lì: italiani o stranieri che siano, ci sono occhi famelici puntati sull’ex banca dei liguri.
E questo è un altro argomento sul quale è giunto il momento di cimentarsi con pensiero laico. Se per banca dei liguri si intende un istituto il cui denaro – raccolto presso i risparmiatori – è stato utilizzato principalmente per foraggiare imprenditori amici oppure operazioni dettate dalla politica, grazie tante, ma chiudiamo pure questo capitolo. Due esempi bastino per tutti: con in sella ancora Giovanni Berneschi, pluri-indagato e accusato di nefandezze inimmaginabili, sono stati dati 250 milioni per lo sciagurato progetto del villaggio tecnologico agli Erzelli (evoluto in una operazione immobiliare) e altri 100 ad Arte per fargli comprare degli stabili dalla Regione Liguria, che con quel denaro ha pensato di rimettere a posto il suo bilancio.
Poi la Corte dei Conti ci ha messo lo zampino, spiegando che no, certe cose proprio non si possono fare. Intanto, però, solo quelle due operazioni valgono 350 milioni, oltre la metà della forbice massima prevista per il nuovo aumento di capitale. Il presidente dela Regione Liguria Claudio Burlando (a proposito, aspettiamo ancora le sue scuse per l’anatema - “farete una brutta fine” – lanciato contro Primocanale) ha già fatto sapere che, eroico, aveva informato Bankitalia che qualcosa non andava in Carige e presto arriverà magari a spiegarci che quasi quasi lui Berneschi neanche lo conosceva. Ma “l’utilizzo” che il governatore ha fatto delle sue solide relazioni con l’ex padre-padrone di Carige, è lì, sotto gli occhi di tutti. Come lo è quello di un altro potente caduto in disgrazia, l’ex ministro Claudio Scajola, che pascolava altrettanto impavido e baldanzoso le praterie messe a disposizione da Berneschi.
Con l’arrivo in Carige del nuovo management, è finita l’era dei “piccioli” affidati con facilità estrema agli amici e agli amici degli amici. E la politica è costretta a starsene, finalmente, ben distante. Ma le conseguenze di quella sciagurata gestione, figlia di connivenze e padrinaggi che trasformavano alcuni azionisti in debitori della banca, si fanno sentire eccome. In Fondazione, dove ancora la malapianta delle presenze politiche non è stata estirpata, invece c’è chi tuttora va concionando, terrorizzato all’idea che Carige sfugga al controllo del territorio. La banca dei liguri? Se non ci fosse da piangere, bisognerebbe ridere di gusto insieme con Totò: “Ma mi faccia il piacere!”
economia
Il sacco di Banca Carige
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