cronaca

L'editoriale
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L’erba era verde smeraldo, compatta, un tappeto perfettamente intrecciato, con quell’andamento a schiena d’asino a renderlo suggestivo. Era il campo di calcio più bello d’Italia. Con la virtù nascosta di un drenaggio dell’acqua a prova di nubifragio. Poi furono le notti magiche del Mondiale ’90 e la magia di quel manto erboso non fu più. Via la schiena d’asino e drenaggio zeppo di sabbia e di chissà quali altri materiali. E così il Luigi Ferraris è diventata una palude, ostaggio di qualsiasi acquazzone.

Come quello di sabato sera, che ha imposto il rinvio della partita. Oggi, a Giove Pluvio piacendo, finalmente Samp e Genoa giocheranno il loro derby numero 110. D’accordo, la pioggia deve avere un conto aperto con la Superba, puntualmente messa in ginocchio dal rovescio subitaneo di incredibili masse d’acqua. Ma Genova ci mette del suo a complicare le cose. Vedasi la storia dei teloni, che magari non sarebbero serviti, visto che ci vogliono dalle 2 alle 3 ore per metterli e altrettanto per toglierli. Però Beppe Costa, presidente della società Stadium, che gestisce l’impianto, candidamente ammette: “Altrove per le stesse operazioni basta un quarto d’ora”. Altrove quelle operazioni sono meccanizzate. Appunto: e perché a Genova no?

Il Ferraris, del resto, non sembra in cima ai pensieri delle stesse società, se è vero – e nessuno smentisce – che i rossoblucerchiati hanno verso Stadium un debito di 2 milioni. Se consideriamo che Stadium è l’erede di Sportingenova, miseramente crollata sotto il peso di un insostenibile indebitamento, la lezione non sembra essere servita. Domanda senza risposta: perché si consente che club abituati a spendere milioni e milioni per l’acquisto e i contratti a giocatori e allenatori, più varie uscite voluttuarie, non paghino puntualmente quanto dovuto per l’utilizzo di un bene pubblico qual è lo stadio? Ci provi chiunque di noi ad accumulare un debito di quella entità verso un qualsiasi ente pubblico: il minimo che capita è essere inseguito dall’ufficiale giudiziario. Ma si sa, la legge è uguale per tutti, solo che per alcuni è un po’ più uguale. Non fa neanche notizia.

Peraltro, si sa che il calcio è oggetto da maneggiare con cura. Al di là dei tanti denari che circolano e che muove, c’è un “problema” di consenso: ve l’immaginate un politico che intima a Genoa e Samp di pagare i debiti altrimenti non le fa giocare e in più pignora loro un paio di giocatori fino a impegno onorato? Non sia mai. Meglio crogiolarsi  nei crediti e godersi il miracolo dell’alta classifica che premia in egual modo il Grifone e il Doria.

Ordinarie storie di calcio. Non solo genovesi. Anzi, alla fine sotto la Lanterna le questioni sono (per ora) gestibili. Alle volte, però, le valanghe – e a Genova si tocchi pure ferro – cominciano dalla caduta di un piccolo masso. Prendete Parma, il cui ex-ex-ex presidente Ghirardi urlò allo scandalo per “il piccolo errore procedurale” costato ai gialloblù il posto in Europa League. Stava seduto su una montagna di debiti – si dice 200 milioni – e intanto strepitava. Con tutti gli organismi preposti a vigilare sui conti che o dormivano o si sono voltati dall’altra parte. Delle due ipotesi, non so quale sia la peggiore.

So, invece, che se non fosse vera, questa storia sarebbe incredibile.
Com’è incredibile che gli hooligans del Feyenoord arrivino a Roma per una partita e mettano a ferro e fuoco la città. Opere d’arte sfregiate, milioni di danni e indignazione dilagante. Poi la gara si gioca e la cosa finisce lì. Chi pagherà? Pantalone, of course. Come sempre, visto che il pomeriggio o la serata allo stadio (una volta si diceva la domenica, altri tempi) costano non solo il biglietto di chi si siede in tribuna o in curva, ma anche centinaia di migliaia di euro per la mobilitazione massiccia delle forze dell’ordine.  E’ come se un’azienda produttrice, che so, di tappi, organizzasse un grande evento e pretendesse che il servizio d’ordine lo svolgessero, gratuitamente, carabinieri, polizia e vigili urbani. Essendo che i club di calcio sono da tempo società per azioni con fine di lucro, più di qualcosa non torna.

O forse torna tutto se il vate del moderno sport pedatorio italiano è un certo Claudio Lotito, presidente della Lazio e aquilotto più per comportamenti che per fede pallonara. Esordì facendosi fare una “leggina” che gli consentiva di spalmare in 25 anni un bel debito con l’erario – sempre per la serie il football muove consensi – e ora cerca di diffondere il suo verbo come un Pierre De Coubertin altro che ribaltato: “L’importante è guadagnare, non partecipare”. Dunque, Carpi e Frosinone mica penseranno di salire in Serie A? Lotito Claudio, in arte l’amico del fico di tutti i presidenti della massima divisione – con l’esclusione di pochissimi che “c’avranno la loro convenienza” a essergli contro, direbbe l’indimenticato Gilberto Govi – se potesse probabilmente caccerebbe dall’Olimpo anche il Chievo e l’Hellas Verona. Questione di bacini di utenza, essendo in ballo la torta dei diritti televisivi, che peraltro certe società spendono prim’ancora di aver incassato. Magari Lotito caccerebbe anche il Sassuolo. O forse no. Perché Sassuolo è sinonimo di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria e patron di un colosso come Mapei. E poi, proviamo a immaginare il Lotito-pensiero per giustificare lo strappo alla sua regola, i neroverdi giocano bene, vuoi mettere?

La cosa comica, se non fosse drammaticamente seria, è che il signor Lotito ha girato per mesi con la tuta dell’Italia a ostentare il suo potere di grande elettore del presidente della Fgci Carlo Tavecchio, un over settantenne arrivato sulla poltrona più alta del calcio italico dopo averci informato che certi “mangia banane”, per giunta colorati di nero, dovrebbero starsene alla larga anziché sgambettare sui nostri campi di calcio. Anche lì: indignazione grondante, prese di posizione anche internazionali (con annessa mini sanzione) e com’è finita? Tavecchio presidente. Un presidente che ha ritirato le deleghe a Lotito per la sua improvvida sortita su Carpi e Frosinone. Il bue che dice cornuto all’asino.

In mezzo a questo calcio ci stanno i tifosi o i semplici appassionati dello sport più bello del mondo. Sport? Davanti alla tv o seduti, nonostante tutto, allo stadio, in realtà le persone si interrogano: ma nell’era dei Lotito, si può ancora parlare di sport? Bè, la stragrande maggioranza, come l’ultimo dei mohicani, resta esattamente aggrappata all’idea che sì, si deve parlare di sport. Risoluti nel volere che in Serie A ci sia diritto di cittadinanza per i Carpi e i Frosinone, che sui nostri campi possa sgambettare chi sa giocar bene, di qualunque nazionalità sia e qualunque colore della pelle abbia, che siano i Lotito, i Ghirardi e i loro accoliti a farsi da parte, smettendola di uccidere i sogni e le emozioni di intere generazioni. E convinti che chi di dovere debba attrezzarsi – per noi con quella faccia un po’ così che stiamo a Genova -  affinché Genoa e Samp paghino il dovuto e trenta millimetri di pioggia non possano negarci una delle due partite più importanti dell’anno. Buon derby. Per nulla rassegnati al fatto che il pallone da rotondo sia diventato quadrato