“Non conto niente. L’intera classe dirigente, genovese e ligure, non conta niente”. Quella che sembra quasi una resa arriva da Maurizio Rossi, senatore della Repubblica, componente del Gruppo Misto-Liguria Civica. Parla di “personale fallimento”, coniugato con quello dei suoi colleghi e delle associazioni e istituzioni genovesi, a proposito del declassamento del Teatro Stabile. Ma allarga il discorso a tutti dossier sui quali il capoluogo e l’intera regione avevano, hanno (avrebbero) delle aspettative. A volte di minima, come nel caso dello Stabile. Sono parole intrise nell’amarezza, di per se stesse forti, a prescindere da chi le pronunciasse.
Se, poi, il clamoroso sfogo arriva da un parlamentare, allora qualche riflessione si impone. E prima di tutto riconduce al tema che nelle ultime ore sta particolarmente agitando i rapporti fra Camere e governo. La tensione è salita perché Laura Boldrini, presidente a Montecitorio, ha rilevato due cose. La prima: “Mi sarei aspettata che sul Jobs Act l’esecutivo tenesse conto del lavoro delle Commissioni”. La seconda: “Sul riordino della Rai non vedo le caratteristiche dell’urgenza, tipiche del ricorso a un decreto”. La Boldrini, in realtà, non ha affermato nulla di epocale, facendo banalmente il proprio mestiere. Che è difendere le prerogative dell’istituzione di cui è a capo. Anche il capogruppo del Pd Speranza e l’ex leader dei democratici Pierluigi Bersani hanno sottolineato l’atteggiamento perlomeno discutibile del governo.
Tutto ciò cucito, apriti cielo! Così Debora Serracchiani, numero due del Partito democratico, ha subito risposto per le rime: “Se si va avanti è perché in Parlamento si fa ostruzionismo e non tocca al Presidente della Camera valutare se su un argomento si può o non si può intervenire per decreto, tocca al Capo dello Stato”. Entrambe le cose sono vere: l’una in punto di fatto, l’altra in punta di diritto. Ma in una democrazia che funziona - una democrazia parlamentare, attenzione - chi per primo deve metterci la pazienza di una ricucitura diplomatica nel merito dei provvedimenti è esattamente il governo. Accettando anche la possibilità che la ragione non sta sempre dalla parte di chi ha i numeri in aula, ma possono averla le minoranze, parlamentari o interne al partito maggiore.
Il premier e leader del Pd Matteo Renzi non ha torto quando si scaglia contro il dilungarsi delle discussioni e il filibustering tattico della politica politicante, ma allora potrebbe sostenere per esempio la Boldrini, che chiede a gran voce di rivedere i regolamenti – e la riforma è pronta – per coniugare il diritto di parola, sempre, da parte dei gruppi parlamentari, con l’esigenza di snellire le procedure e dare tempi certi sul voto (favorevole o contrario che sia) dei provvedimenti. Un esempio pratico viene dal Parlamento europeo, dove gli interventi sono limitati a tre minuti. “Quando ci fai l’abitudine – mi diceva tempo fa proprio un europarlamentare, Sergio Cofferati – scopri che in quei centottanta secondi puoi davvero spiegare tutto”.
Il fatto, probabilmente, è un altro. A Renzi il rottamatore, a Renzi il velocipede, più che limare le procedure sembra interessare soprattutto imbavagliare qualsiasi dissenso si levi su ogni cosa che fa, persuaso com’è, e come appare, di avere la verità rivelata in tasca sull’intero scibile italiano. Secondo la regola “vietato disturbare il manovratore”, il premier e leader del Pd mostra una profonda idiosincrasia per tutto ciò che ha il sapore del confronto – quello vero, non quello finto, inoculato come succedaneo di una democrazia che sta picconando – e sembra più incline a riesumare un vecchio arnese della Prima Repubblica: considerare i parlamentari come soldatini, il cui unico compito è quello di sedere in aula, ascoltare il Verbo e poi schiacciare i pulsanti per votare rigorosamente sì a tutto ciò che il governo propone e dispone.
Ma dietro lo sfogo di Rossi non ci sta solo questo scenario. C’è dell’altro. Una cosa, intanto, se possibile ancor più grave: quando il senatore rivela di aver chiesto, una decina di giorni fa, informazioni sulla pratica dello Stabile e di aver ricevuto rassicurazioni sul suo esito, ci dice che in questo Paese esistono uffici ministeriali nei quali c’è gente che racconta delle balle ai parlamentari. I quali, dunque, da una parte rischiano di essere imbavagliati dal renzismo e, dall’altra, di essere letteralmente presi in giro dai cosiddetti tecnici. Qualcuno considera che raggirare i parlamentari significa raggirare gli italiani, rappresentati proprio da coloro che siedono alla Camera e in Senato, per quanto arrivati lì in forza di una legge elettorale non casualmente ribattezzata Porcellum?
L’altro elemento che lo sfogo di Rossi porta con sé, allargando il discorso oltre il caso Teatro Stabile, è il peso specifico pari allo zero della classe dirigente ligure. Fatta anche, nella circostanza, di due ministri con deleghe non irrilevanti, posto che Andrea Orlando guida la Giustizia e Roberta Pinotti è a capo della Difesa. Da quel che emerge, tuttavia, sembra proprio che Renzi riservi ai componenti del suo esecutivo lo stesso trattamento previsto per i parlamentari: se vuoi la poltrona, fai come dico io, vota e non scocciare. Questo può spiegare come mai il sindaco di Genova Marco Doria racconti di aver chiesto di essere ascoltato dalla Commissione che avrebbe deciso sullo Stabile, di essersi messo a disposizione del ministro Dario Franceschini (Cultura) ma di essere stato bellamente rimbalzato. Appunto. In compenso, Firenze, guarda un po’ città natale di Renzi, va dritta filata in meta.
Che, poi, i liguri ci mettano del loro è indiscutibile. Perché anche quando avrebbero mille e una buone ragioni per insorgere, non lo fanno. Né in Parlamento, dove al di là di sterili interrogazioni e/o mozioni non vanno, compresi quelli del Pd, né in tutte le sedi dove potrebbero far sentire la loro voce e cercare delle sponde: i partiti, Confindustria, i raggruppamenti nazionali di enti (Camere di Commercio) e associazioni, il mondo della finanza e via elencando. Tutti in ordine sparso, mai a fare squadra, men che meno a prendere la minima iniziativa che possa mettere in discussione la rendita di posizione personale o di bottega.
Tante vicende stanno lì a raccontare la stessa storia. Una è tanto emblematica che la ripeto, sebbene ne abbia già parlato: ma si può dire grazie a un ministro (Maurizio Lupi, Infrastrutture) che per il raddoppio ferroviario Andora-Finale Ligure ti garantisce 15 milioni all’anno per i prossimi 15 anni, quando l’opera costa oltre un miliardo? No che non si può. Meglio: non si potrebbe, non si dovrebbe. Invece Raffaella Paita, candidata presidente in Regione Liguria per il Pd, quel grazie l’ha pronunciato davvero.
E’ una renziana doc, perfettamente adeguatasi alla sinfonia del renzismo deteriore: prende le botte e bacia il bastone. Almeno, l’assonante “razzismo” – da Antonio Razzi, parlamentare abruzzese – non spaccia alcuna nobiltà politica: “Io penso ai cazzi miei”. E gli altri (che nello specifico significa i liguri)? “Cazzi loro”. Letterale. E tanti auguri.
politica
Ma quale Renzi, questa è la Liguria di Razzi
L'editoriale
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