Nella scuola Diaz ci furono episodi di tortura. Se non fossero bastati le immagini dei muri coperti di sangue, il racconto dei presenti, le testimonianze durante il processo, ora arriva la voce di Strasburgo: “Quanto accaduto la notte del 21 luglio 2001 deve essere qualificato come tortura”, dice la Corte europea per i diritti umani.
La parola tortura colpisce perché dà una connotazione precisa a quanto accadde fra le mura di quella scuola, ma non è più forte dell’espressione “macelleria messicana” che l’allora vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, usò in tribunale per descrivere quanto aveva visto con i suoi occhi.
Se a 14 anni di distanza da quei fatti il (banale) pronunciamento dei giudici europei fa notizia è perché in questi 14 anni in Italia l’assalto alla Diaz è sempre stato trattato come un tabù da politica e forze dell’ordine. Una macchia da occultare, più che da rimuovere distribuendo responsabilità e coprendo la falla giuridica che ancora impedisce di perseguire simili nefandezze. Tanto inaudita la violenza sugli occupanti (inizialmente giustificata con la resistenza degli stessi: peccato che la prima vittima dei pestaggi sia stato un giornalista inglese che si trovava all’esterno della scuola, e che le coltellate sui giubbetti di un poliziotto si siano rivelate autoinferte), quanto incomprensibile il motivo. Un massacro talmente gratuito che un’analisi trasparente e serena di quei fatti è sempre stata impossibile.
“La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti”, scriverà in seguito Vincenzo Canterini, comandante del reparto Mobile di Roma, uno dei responsabili dell’irruzione nella scuola.
Da quell’episodio, e dai fatti di Bolzaneto, la politica non volle trarre insegnamenti perché o indirettamente responsabile di quello scempio o connivente con le bugie che lo accompagnarono e lo seguirono. Il limitato dibattito parlamentare si svolse partendo da ricostruzioni false e da prove che in sede giudiziaria si rivelarono costruite ad arte (dalla finta coltellata ai poliziotti, alle bombe molotov sequestrate nella scuola ma introdotte da un agente). L’assenza di una commissione d’inchiesta sui fatti del G8 (non solo sulla Diaz, le violenze ingiustificate e fuori contesto si consumarono in decine di altre occasioni) è la prova che i partiti volevano lasciarsi tutto alle spalle.
Curioso: Claudio Scajola si è dimesso per due volte da ministro. La prima volta per l’insulto a Marco Biagi, la seconda per la casa al Colosseo. Eppure era ministro dell’Interno all’epoca del G8: nessuno gli ha mai chiesto davvero conto di come sia stato gestito l’ordine pubblico in quei tragici giorni di Genova. Un’ulteriore prova dell’impossibilità per la politica italiana di uscire dai pregiudizi e dagli schemi usati sinora per analizzare, o meglio liquidare, i fatti di quelle tragiche giornate genovesi.
Ora l’Europa usa la parola “tortura”, per dire che lì avvennero soprusi e violenze ingiustificate. Non c’è nessuna vera notizia, nulla che già non si sapesse. Ma la sentenza egualmente ci colpisce e fa discutere. Segno che la memoria di quei giorni non è superata. E non potrebbe essere diversamente, proprio perché quella parola, “tortura”, nella legislazione italiana neanche esiste. Così Strasburgo ci sbatte in faccia una banalità, una delle tante di cui il nostro Paese ha ancora disperato bisogno.
cronaca
G8, una banale vergogna
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