“Non tutto è vero quello che sembra”. Bisogna partire da questo paradosso per provare a capire il caso della Fiera di Genova, deflagrato con le dimissioni del presidente Sara Armella. Un addio a sorpresa, hanno osservato in molti. Appare, ma non lo è. Armella, in realtà, avrebbe persino anticipato la mossa se non fosse stata preceduta dall’amministratore delegato Antonio Bruzzone. Dietro ci sono ragioni personali, perché l’ormai ex numero uno dell’ente fieristico ha intensificato la propria attività professionale su Milano (nuovo studio legale, rafforzato nel personale) e questo, ormai, faceva a pugni con l’impegno pubblico. Vantaggi e svantaggi di chi vive del proprio e non di incarichi avuti dalla politica.
Nel confermare ufficialmente l’anticipazione data da Primocanale.it, Armella parla di “missione compiuta”, ed è certamente così se si considera quali erano le condizioni della Fiera quando ne prese la guida. Ha ristrutturato, riorganizzato, limato, tagliato, implementato, mediato: di tutto e di più. Con una spesa per il personale scesa da 4,5 a 1,2 milioni e un numero di dipendenti calato da 57 a 33. Il conto 2014 così risulta finalmente in pareggio, anche se vi ha contribuito una tecnicalità legata agli ammortamenti di una controllata legati a concessioni prima negate poi arrivate. Al netto di ciò, magari ci sarebbe ancora un po’ di “rosso”, ma certo non dell’entità pregressa. E difatti Sara Armella, in modo intellettualmente onesto, parla di “risanamento sostanziale”. Il che è vero, al di là di ciò che in modo nascosto potrebbero dire alcuni numeri.
La cosa singolare è che il presidente della Fiera lascia tradendo un certo retrogusto di amarezza per quel che avrebbe potuto essere e non è stato. In filigrana, cioè, si coglie nella sua decisione anche un certo rimpianto. Che non suona come autocritica – e da questo punto di vista non avrebbe ragione a farne, perché le condizioni in cui ha operato sono state indiscutibilmente ostili – ma come una critica. Verso chi? Ma verso gli azionisti è la prima risposta che alcuni si sono dati. Comune di Genova, Città metropolitana, Regione Liguria, Camera di Commercio e Autorità portuale, cioè, avrebbero potuto ricapitalizzare e quindi dare ad Armella le risorse necessarie per avviare un vero rilancio (ma va detto che su un totale di 29, lo scorso anno gli eventi nuovi sono stati 17).
E invece no che non avrebbero potuto. Per la semplice ragione che il pesante fardello di tre bilanci consecutivi in passivo (in tutto sono stati cinque) impedivano per legge ai soci, che sono enti pubblici, di sborsare anche un ulteriore centesimo. Salvo incappare negli strali della Corte dei Conti. E’ pur vero che in questo Paese le leggi, tutte, sembrano fatte apposta per essere aggirate e allora si potrebbe dire che uno straccio di idea i soci se la sarebbero potuta far venire. Eccolo il punto: al di là dell’aspetto giuridico-finanziario, ciò che finora è mancato è proprio un progetto guida, un’idea forza per decidere che cosa fare della Fiera. Alle volte è l’assenza del guizzo di fantasia, della genialata il vero handicap da superare, più che la scarsa o nulla disponibilità finanziaria. Su questo punto le proposte di Armella e dell’amministratore delegato Bruzzone devono aver sbattuto contro un muro di gomma. Come pare sia capitato ai molti che li hanno preceduti negli incarichi (con qualche eccezione), se quasi tutti se ne sono poi andati portandosi in tasca il rimpianto di non essere riusciti a fare di più.
Questo fil rouge che unisce Armella a chi è venuto prima dice una cosa: o chi negli anni ha guidato la Fiera era un romantico psicolabile o, forse, gli azionisti un esame di coscienza devono farselo. A cominciare dal Comune di Genova, che nel tempo qualche mirabile performance se l’è inventata (una su tutte: chiedere all’ente fieristico di “fare da banca” a Tursi per costruire il padiglione Jean Nouvel) per mettere nei guai la Fiera. L’attuale situazione chiama di nuovo in causa la municipalità genovese. Per una prima ragione: il personale dell’ente è stato ridotto e il costo è drasticamente calato perché, a differenza di quanto avviene in altre partecipate, i lavoratori hanno fatto rinunce dirette e i sindacati sono riusciti a giocare la partita senza neanche un’ora di sciopero.
Si potrebbe dar torto ad Armella, che il suo ruolo lo ha giocato in una così delicata vicenda, se pensasse “e dopo tutto questo nessuno mi mette in condizione di pensare davvero allo sviluppo?”. Finché a imporlo erano i revisori dei conti, che prima di qualsiasi investimento hanno voluto vedere una riduzione dei costi fissi, ci sta. Ma la politica, leggasi i soci, qualcosa si sarebbero dovuti inventare per spingere la Fiera verso un futuro meno incerto (addirittura mettendo in discussione il Salone Nautico o trattandolo peggio, leggasi alla voce Regione targata Claudio Burlando, di qualche maxi-sagra).
La seconda ragione che riporta Tursi al centro del ring è la divisione delle quote: il Comune di Genova possiede il 32%, la Città metropolitana il 19, la Regione Liguria il 30, la Camera di Commercio il 17 e l’Autorità portuale il 2. Questo vuol dire che in capo al rappresentante pro tempore Marco Doria – sindaco di Genova e sindaco metropolitano – sta il 51%, cioè la maggioranza assoluta. A Doria non si può imputare disimpegno, anche dal punto di vista finanziario, ma non è che il Comune abbia brillato per idee guida. Il domani qual è? Difficile dire o immaginare che possa esserci una rivisitazione dell’assetto proprietario, anche se un certo interesse lo suscita il dialogo apertosi fra la nuova amministrazione regionale guidata da Giovanni Toti e la stessa Camera di Commercio, con in più le evidenti difficoltà della Città metropolitana a far fronte anche all’ordinario.
Restando all’oggi, però, è probabile che in attesa di vedere chi sarà il successore di Armella – l’assemblea è stata già convocata per il 28 luglio con all’ordine del giorno la nomina – si preparino le carte per avere in Alberto Cappato, il direttore generale della Porto Antico, anche il consigliere delegato della Fiera (in pratica prenderà il posto di Bruzzone). Per arrivare alla fusione? L’ipotesi sta sul tappeto da tempo, ma non si può definirla una scelta consigliabile. Le fusioni si fanno per unire due forze, non due debolezze. E se la Fiera ha ancora aperto il dossier “Jean Nouvel”, perché la questione non risulta affatto chiusa, la Porto Antico si trascina il nodo irrisolto di Ponte Parodi (più i canoni arretrati dell’Acquario, che ammonterebbero a un pio di milioni).
Quelle appena descritte, più altre, non paiono le condizioni migliori per andare subito alle nozze di Fiera e Porto Antico. Così c’è chi lavora a un fidanzamento con pre-contratto matrimoniale che metta a fattor comune non solo il timoniere, Cappato, ma soprattutto la gestione, attraverso una sinergia il più possibile stretta e finanziariamente sostenibile. Si potrebbe obiettare che si tratta di una strategia fin troppo prudente. Forse. Ma a volte il passo lento conduce più lontano di uno sprint iniziale. Del resto, parlare di velocità a Genova, di questi tempi non porta fortuna.
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Fiera di Genova, non tutto è ciò che appare
L'editoriale
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