È un pugno nello stomaco ‘El clan’. In una Mostra che finora spesso ha attinto dalla realtà (Spotlight, Black mass, Everest, Marguerite e via dicendo) il film dell’argentino Pablo Trapero prodotto da Pedro Almodovar si mette in scia rievocando – dopo un’attenta ricerca delle fonti tramite testimonianze, documenti e fotografie – una drammatica vicenda avvenuta nel suo paese all’inizio degli anni Ottanta, quando la dittatura stava per terminare e si scatenava la guerra delle Falklands.
Sembrava una famiglia normale, quella dei Puccio: benestanti, una casa nel quartiere di San Isidro nel nord di Buenos Aires, cinque figli di cui il maggiore giocatore di rugby di livello nazionale. Solo, avevano un vizietto: quello di organizzare rapimenti di vittime facoltose che inevitabilmente finivano con l’uccisione del prescelto. In cima alla piramide il patriarca Arquimedes con intrallazzi nelle alte gerarchie del Potere. Ma quello che più colpisce ed inquieta nel film è che per il regista non si tratta di un pazzo che spunta dal nulla e si trasforma in un bandito per banali motivi di lucro ma di un ‘prodotto’ del suo tempo che è diventato lentamente e in proprio ciò che già era connaturato nel contesto della politica argentina.
Il clan Puccio, sembra dirci Trapero, non sarebbe esistito senza la dittatura militare, tant’è che usava gli stessi metodi, né più né meno. Insomma, come spesso fa il suo collega cileno Pablo Larrain, attraverso una vicenda privata setaccia le zone d’ombra della storia del suo Paese. In un modo talmente convincente che per la Giuria credo non sarà facile non trovargli un posto nel palmares finale.
Posto nel palmares che invece, purtroppo, faticherà a trovare Luca Guadagnino, regista del secondo film italiano in concorso, ‘A bigger splash’ (che rimanda all’omonimo docufilm di David Hockney sui Rolling Stones) ambientato nell’isola di Pantelleria dove la leggenda del rock Marianne Lane è in vacanza con il compagno Paul quando arriva inaspettatamente Harry, produttore discografico iconoclasta nonché suo ex, insieme alla figlia Penelope, provocando un girotondo di situazioni che finiranno per deflagrare. Sullo sfondo, il dramma dei migranti.
Accolto dai fischi dei colleghi alla proiezione per la stampa, è il remake de ‘La piscina’ di Jacques Deray (1968, i protagonisti erano Alain Delon, Romy Schneider e Maurice Ronet) con quattro persone rinchiuse in una sorta di stanza mentale che è la villa in cui si svolge l’azione. Rinuncia, rifiuto, aggressività nei rapporti tra le persone: questi i temi che fino a un certo punto, bisogna dire, funzionano, prima che il film deragli sul grottesco. Ed è un peccato che ciò avvenga con l’incolpevole partecipazione di Corrado Guzzanti nel ruolo di un macchiettistico ufficiale dei carabinieri, quasi ai livelli del Catarella di Montalbano, anche perché il resto del cast (Ralph Fiennes, Tilda Swinton, Dakota Johnson e Matthias Schoenaerts) regge. Guadagnino, non c’è dubbio, sa come muovere una macchina da presa ma quell’ultima parte con un epilogo a tarallucci e vino quando di mezzo c’è un omicidio, grida vendetta.
Infine, due parole anche sul terzo film in concorso oggi, ‘L’hermine’ del francese Christian Vincent, protagonista uno scontroso e scorbutico presidente di Corte d’appello francese (molto bravo Fabrice Luchini), soprannominato ‘il giudice a due cifre’ perché non condanna mai a meno di dieci anni, che per caso rincontra l’unica donna che gli aveva fatto palpitare il cuore nei panni della giurata di un processo che presiede. Una pellicola molto tenera, garbata, tradizionalmente francese, che si vede con piacere ma che non si capisce cosa ci faccia all’intero di un Festival.
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Mostra di Venezia, "El Clan": ecco i mostri partoriti dalla dittatura argentina
L'italiano Guadagnino in concorso con "A bigger splash"
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