Negli anni 2000, all’inizio del VI Programma Quadro UE di R&D, alcuni uomini di pensiero della Commissione Europea, lanciarono con successo l’idea e la metodologia delle Piattaforme Tecnologiche Europee (ETP, European Technology Platforms).
Si trattava di istituire dei tavoli tematici coordinati dalla Commissione stessa (quali nanotecnologie, ICT, aeronautica, settore marino-marittimo) attorno ai quali far sedere i principali attori europei pubblici e privati, al fine di stilare una Strategic Research Agenda capace di traguardare un orizzonte temporale sul breve, medio e lungo e periodo al fine di assicurare competitività all’Europa rispetto alle altre aree continentali del mondo.
Il valore primario delle ETP era nel distinguere e integrare, in ogni settore, opportunamente tre sfere: quella della Ricerca e Sviluppo, quella dell’Innovazione e quella della Politica Industriale. L’Italia, in quella stagione, forse per la prima volta, cercò di raccogliere il messaggio, su impulso e regia del MIUR, col Ministro Moratti, con una decina di settori strategici, identificando come hub operativo il CNR, allora presieduto dal Prof. Fabio Pistella, e nel giro di un paio di anni furono messe a punto una serie di ETP italiane (non il semplice mirroring di quelle europee), alcune anche dotate di risorse finanziarie.
La sfida – e la difficoltà – maggiore era quella di tentare almeno un abbozzo di politica industriale condivisa come Paese da parte dei principali attori industriali di riferimento dei varii settori. Del resto, è noto come l’assenza di un disegno condiviso di politica industriale da lungo tempo affligga l’Italia e, oltre alle negative conseguenze a livello economico e sociale, ribatta pure sulla frammentazione della sfera dell’Innovazione e, ancor peggio, su quella della Ricerca e Sviluppo.
Un professore universitario, un ricercatore di un ente, difficilmente riesce a concepire le relazioni e l’impatto della propria attività sul mondo reale, opera – quando lo fa – seguendo lo schema dell’offerta di tecnologia e non si pone proprio il problema della domanda. Figurarsi se poi la domanda non trova modo di essere espressa per assenza di politica industriale condivisa.
Bene, questo è quello che accadde all’epoca, quando l’Italia tentò il lancio della piattaforma tecnologica TERIT (Telecommunication Research in Italy). Nonostante lo sforzo fatto che pure portò alla stesura di una agenda strategica, già allora erano evidenti le differenze di politica industriale di Telecomitalia sostanzialmente orientata alla finanza più che agli aspetti tecnologici, a dispetto delle parole espresse, rispetto a quelle di Ericsson, storica compagine multinazionale produttrice di tecnologie e prodotti solidi, dalle centrali telefoniche per telefonia fissa alla componentistica per fotonica, che ha sempre trovato in SIP (come monopolista) e poi in Telecomitalia il cliente principale in Italia il quale andava ora invece posizionandosi come competitor.
A Genova, tutto ciò, in quegli anni, si è incrociato con l’acquisizione della storica Marconi (parte civile) da parte di Ericsson e dal progetto di insediamento a Erzelli, con l’aiuto dello Stato (MIUR e MISE). Il valore aggiunto di Marconi poteva essere per Ericsson la competenza e la capacità sul versante della componentistica elettronica per telecomunicazioni, da far evolvere verso il settore mobile, sul quale Ericsson puntava e sugli aspetti relativi ai protocolli di sicurezza delle reti a livello di infrastruttura fisica.
L’altro aspetto strategico poteva essere la fotonica, ma Genova non ha mai coltivato a livello di ricerca questo tema a livello universitario, come invece già faceva la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, e il luogo ideale per questa sfida di R&D a livello corporate per Ericsson parve giustamente l’Area di Ricerca del CNR di Pisa, con i suoi Istituti e l’insediamento dei laboratori del CNIT (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni) sotto la preveggente regia del Professore Giancarlo Prati, che pure a Genova insegnò a Ingegneria in anni precedenti, ma che rapidamente e saggiamente migrò, prima a Parma e poi proprio alla S. Anna.
Del resto, il Preside di Ingegneria dell’Università di Genova del tempo, anch’egli telecomunicazionista, a tutto pensava fuorchè alla fotonica come asset strategico per il Paese e per la Liguria: vedendo avvicinarsi la fine del proprio mandato, pensava che forse sarebbe potuto diventare Rettore di un Politecnico ligure, guidato dalla alta tolda di Erzelli.
Naturalmente, Ericsson ridefinì il proprio ruolo su Genova a Erzelli a quello di una propria business unit e non a luogo per sviluppare R&D strategiche a livello corporate, come invece divenne Pisa. E come tutte le business unit delle grandi multinazionali, essa è soggetta alla dinamica del mercato, sia per gli aspetti economici, sia per quelli geografici. L’assenza decennale di una politica industriale italiana sulle telecomunicazioni e l’assenza di retroterra culturale e scientifico sulle materie strategiche di R&D per Ericsson capace di generare valore e di essere competitivo a livello regionale ligure sono sicuramente due dei fattori che hanno generato il caso Ericsson del nostro tempo.
*professore ordinario di bioingegneria all'Università degli Studi di Genova
economia
Ericsson, dietro il flop della sede Erzelli l'assenza di una politica industriale
Così l'azienda svedese ha investito su Pisa e smantella Genova
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