L'accusa che puoi tirarti addosso, se si affronta questo discorso, è di essere uno snob, uno con la puzza sotto il naso, un intollerante, magari anche un po' conservatore. Ma come si fa a tacere di fronte al continuo degrado delle nostre strade, delle nostre piazze, degli angoli più centrali della nostra città, spesso usati come piccole fiere gastronomiche, mercati alimentari, rivendite a cielo aperto di frutta e verdura, soffritti e fritelle, ma anche più in generale di esposizione di merce a basso costo e ahimè bassissima qualità, una specie di outlet dell'outlet dell'outlet, moltiplicato per cento e al continuo ribasso non solo del prezzi?
Quando mi sono trovato davanti alla nobile piazza Dante, all'ombra delle torri di Porta Soprana, della Banca d'Italia e dei grattacieli della nostra architettura da ex grandeur, completamente sgombrata, questa piazza, dalle moto e invase da stand gastronomici, dei quali il più vistoso si stagliava con la scritta cubitale “Minchia che cannolo”, allora ho pensato che il nostro decoro urbano ce lo siamo messo sotto i tacchi.
Ok: stiamo diventando una città turistica, evviva, è l'unica cosa che tira, offre prospettive di lavoro, costruisce la nostra immagine: ma questo giustifica che occupiamo il centro con esposizioni che non hanno nulla che fare con la nostra immagine e con lo stile cittadino?
Già mettere le formaggette e la ricotta nella piazza di Largo Pertini, davanti alla Prefettura, in cima alla via Roma che sarebbe (ma chissà se lo è ancora?) la strada nobile dello shopping e delle “firme”, mi sembra uno sfregio allo stile del luogo. Passino i mercatini dell'antiquariato, che hanno un senso e sono oramai una tendenza universale di attrazione, ma le rivendite alimentari nelle piazze e nelle strade centrali, cosa ci azzeccano?
Nessuno ce l'ha con i venditori ambulanti, per carità, e con la capacità che hanno di animare le strade cittadine, ma c'è modo e modo e c'è strategia e strategia delle autorità cittadini di concedere permessi e concessioni di ocupazione di suolo pubblico.
“Minchia che cannolo” è un urlo di beatitudine gastronomica che si può alzare in tante parti della città, a fianco di zone magari più direttamente turistiche, nel cuore della Movida dei caruggi, nell'area ludica del porto antico, in una risorta Acquasola, magari in corso Italia, quando ci sono le domeniche delle bici o altre manifestazioni, nella piazza della Vittoria di certe manifestazioni popolari. Ma lanciare “lo strillo” nel cuore professionale, affaristico, finanziario (per quanto ne rimane...) della città appare uno sfregio a un certo decoro che dipende anche da come viene equilibrato dagli amministratori il criterio di distribuzuione delle manifestazioni in città.
Oppure, visto che abbiamo visto accendersi e incendiarsi, la lunga polemica sul mercato ambulante degli immigrati, da Turati a Corso Quadrio, pensiamo che tutta la città possa diventare impunemente area di vendita libera, open air, dovunque e comunque?
Diventando sempre più turistici, dovendo circoscrivere diverse aree a seconda della propria tipologia, il Porto Antico, le zone dei Rolli, i “quadrilateri dello shopping”, il Comune dovrebbe costruirsui anche una politica del decoro. Già sopportiamo una Galleria Mazzini declassata da lavori eterni, che ne svuotano la vocazione di salotto cittadino, già abbiamo subito lo sconcio dei sotto passi, delle altre gallerie, come quelle dell'area di Piccapietra, trasformate in residui di attività commerciali, blindate di notte per non diventare dormitori pubblici dei senza dimora, già subiamo che l'anticamera del Carlo Felice diventi anch'essa spesso un bivacco improvvisato... non infliggeteci anche “Minchia che cannolo”, con tutto il rispetto per il canolo stesso, per i siciliani e per la loro dolce cultura gastronomica.
cronaca
"Minchia che cannolo" e il decoro di Genova
Gli angoli centrali della città usati come fiere gastronomiche
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