Se non si trova una soluzione per la crisi dell'ex Ilva, abbandonata dai suoi nuovi padroni, o affittuari, della ArcelorMittal, non vedo nulla di buono per il futuro di quelle aree pregiate sulle quali è stata costruita la prima acciaieria a ciclo integrale in Italia durante gli anni Cinquanta, imponendo alla città un sacrificio irrisarcibile nei secoli.
Per me se la siderurgia va ko per l'insipienza degli ultimi due governi, per la mancanza di una politica industriale da decenni in questo Paese, per l'incapacità di tutti gli ultimi governi, centro destra, centro sinistra, perfino quelli più antichi, a Genova è come se si spezzasse la spina dorsale della città.
E' inutile avventurarsi in ragionamenti troppo futuristici sullo sviluppo economico della ex Superba o illudersi per gli innegabili sviluppi dei nuovi settori industriali hig tech, a Erzelli, a Morego o sulle possibili espansioni di un porto che afferra nuovi business, ma non è capace di fare i dragaggi necessari a attirare le mega navi del futuro. L'industria è il “sale” di Genova da quando nell'Ottocento il Conte Camillo Benso, conte di Cavour, ha spostato qua l'sse di questo sviluppo dell'Italia appena unita. Nel Novecento l'industria ha stabilito quali erano, insieme al porto, i connotati sociali, economici, culturali della ex Repubblica di Genova. Sono dati incancellabili e insieme alle altre attività mercantili, commerciali, professionali, formano il nostro asset.
Per costruire negli anni Cinquanta di quel Novecento la prima acciaieria a ciclo continuo in Europa abbiamo riempito il mare, sbriciolato le colline, cancellato le onde, sfigurato la costa per sempre, annichilendo quartieri interi. L'operazione, che poi avrebbe garantito lo sviluppo del boom italiano per decenni interi negli anni Sessanta, Settanta, fino agli Ottanta della prima crisi, è costata un prezzo enorme anche in vite umane: quanti operai morti nei cassoni con i quali si gettavano in mare le fondamenta dell'acciaieria. All'Italsider, tra Cornigliano e Campi, lavoravano più di 15mila operai. Negli uffici del centro città, tra Carignano e Sampierdarena, c'erano migliaia di dirigenti e impiegati. Allora Taranto era ancora inimmaginabile e solo negli anni Settanta le prime ruspe avrebbero spianato gli ulivi per costruire la fabbrica, quella che oggi è diventata il vulcano della crisi industriale che mina non solo questo governo, ma la politica industriale italiana nel terzo Millennio.
Per cui Genova è anche in questo caso primogenita, la “madre” dell'acciaio che ha fatto crescere l'Italia, che ha fatto sviluppare le industrie automobilistiche, quelle degli elettrodomestici e quant'altro del nostro identikit da boom, da terza potenza europea nella manifattura. Primogenita anche nel trovare una soluzione del dilemma lavoro-ambiente, con laccordo di programma del 2005, con lo spegnimento dell'altoforno, dopo anni di polemiche e di battaglie con le donne in prima fila. Allora pensare che tutto questo finisca in una resa totale, con quello stabilimento, da 4 mesi
battezzato irridentemente con la scritta Arcelor Mittal, che ha sostituito Ilva, abbandonato nella zona più pregiata di Genova, un'area per la quale era stata inventata “l'autonomia funzionale” con l'accordo di due giganti come il genovese presidente di Confindustria, Angelo Costa e il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, è una vera bestemmia politica ed economica.
La siderurgia va salvata lì, in quel luogo originale della sua storia italiana. Quelle aree non possono fare la fine di Bagnoli, lo stabilimento partenopeo chiuso da decenni e che inquina “da morto”. Non credo molto in ipotesi alternative di utilizzo. Ci vedo solo cataste di container e grandi parcheggi: la capacità di progettare e programmare non ci manca. Ma ci manca quella di realizzare, di rendere concreti i progetti, di costruire grandi opere pubbliche o private. Gli esempi negativi riempiono il territorio di Genova e gli archivi sono zeppi di sogni. Il Water Front di Renzo Piano è in una bacheca del Museo del Mare. Facciamo muro per salvare la siderurgia a Genova e ovviamente anche a Novi. Ce lo impone la nostra storia, ma sopratutto il nostro futuro. Senza quella gamba la nostra città zoppica. Anche con un ponte nuovo, il porto che “tira” e magari la banca Carige in qualche modo salvata.
cronaca
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