Tagliare la cultura in Italia è come la barzelletta del marito che si taglia qualche altra cosa per far dispetto alla moglie. Tagliare i soldi ai teatri, ai musei, alle mostre, tagliarli alle biblioteche che sono la grande anima culturale del nostro Paese, ai restauri e agli acquisti è il segno del disastro. Il Paese rinuncia alla sua storia, in qualche maniera quasi la rinnega. Ma c’è cultura e cultura, anzi c’è la cultura e c’è l’inutile, lo spreco, il quaquaraqua mascherato da intelligenza. E qui non solo si deve tagliare, ma bisogna farlo subito e bene. L’importante è verificare quello che è davvero patrimonio di un Paese e, nel nostro caso, di una regione o di una città e quello che non lo è.
Giusto, quindi, salvare il teatro Carlo Felice, ma solo ed esclusivamente se si elimineranno gli sprechi. Non si può pensare di buttare milioni nel teatro se questo pensa di continuare ad essere una macchina succhia-soldi, fuori controllo, e assolutamente fuori dalla realtà. Io non so se siano verità o leggenda metropolitana le storie di singolari privilegi che resisterebbero all’interno del teatro e su questi racconti, per mia formazione, ci vado molto cauto. Certo che tutto non può andare avanti come prima, perché il “prima” non c’è più, per nessuno.
Fa dolore assistere allo spegnimento di una galleria come quella di arte contemporanea. Ma bisogna anche essere sinceri: quanti visitatori ha raccolto questa istituzione in un anno? Come si può fare per mantenere un presidio di arte contemporanea in una città che si bea solamente del Seicento? A me piacerebbe molto, come cittadino, che con grande onestà si mettessero i numeri della cultura locale in piazza, a disposizione di tutti, costi e ricavi per capire che cosa deve essere difeso fino alla morte anche in un momenti di grande crisi e che cosa, invece, va corretto. Senza ipocrisie.
IL COMMENTO
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