GENOVA -"Io sono Garibotti Valente Giobatta, nativo del Bracco, Carrodano, però risiedo a Genova...".
L'applauso più bello e lungo, quasi interminabile, alla consegna delle onorificenze del presidente della repubblica per la festa del 2 giugno nel museo diocesano è toccata a lui, Garibotti, cento anni ad agosto, ex internato, che è stato accompagnato e coccolato da due nipoti e dal figlio.
Poi Garibotti si è raccontato a Primocanale.
"Mi hanno catturato il 9 settembre del 1943, ero militare a Bolzano e da lassù dopo tre giorni ci hanno caricato su dei carri merci e siamo stati internati in campi, prima in Germania, poi in Polonia e in Prussia (sempre ndr Germania), lavoriamo dalle sei del mattino alle sei della sera, dodici ore e l'unico cibo era un litro di zuppa di rape e nient'altro, tanto lavoro e tanto freddo. Siamo stati poi liberati dai russi il 27 gennaio del 1945 a una temperatura di 30 gradi sotto zero, si sono riconoscente ai russi, limitatamente a quella vicenda, aggiunge facendo riferimento alla storia attuale che vede la Russia invadere l'Ucraina, dopo la liberazione abbiamo lavorato cinque o sei mesi in un'azienda agricola dei russi e poi siamo arrivati ad ottobre del 1945".
Giobatta si commuove quando ricorda l'accoglienza con i familiari: "Mi sono venuti a prendere alla stazione ferroviaria di Bolzaneto". Poi parla del significato della Festa della Repubblica: "Ha senso per essere più uniti e disciplinati e più corretti".
Alla domanda se può tornare il fascismo o il nazismo Garibotti risponde così: "Io non parlo di fascismo, ma di persone che devono comportarsi come devono comportarsi: lavorare, produrre e volersi bene".
Toccante la scena finale con Garibotti che si allontana da via Reggio, dal Museo Diocesano, sorretto con tanto amore dalle due nipoti, una carezza piena di amore per un uomo che ha vissuto per oltre due lunghissimi anni sulla sua pelle la pagina più nera della storia della nostra Repubblica
IL COMMENTO
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