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Caricandomi sulla schiena tutta, o quasi, la storia di Confindustria Genova non per meriti personali, ma per età e vicende private, capisco che la corsa cominciata oggi per arrivare al ruolo di presidente, sessanta anni dopo Angelo Costa, l’ultimo e unico genovese in quel ruolo, è non solo importante e piena di contenuti.

Costa cavalcava con quello stile sobrio, la cantilena genovese e i principi cattolico-liberali la rinascita italiana nella sua prima presidenza e nella seconda i primi scontri in un Paese che ce l’aveva fatta e che si preparava, diventando una delle potenze industriali in Europa e non solo.
Oggi chi corre da Genova e dalla Liguria per quella carica ha davanti sfide epocali non solo per una politica industriale persa tra globalizzazione, rivoluzioni geopolitiche e ambientali e grandi difficoltà del tessuto politico, passato da quella Prima Repubblica, alla Seconda post Tangentopoli e forse alla Terza. 0.

Per questo motivo è importante che la corsa sia vinta da un genovese o da un ligure: perché i due nostri candidati, sbucati come da un cilindro, Edoardo Garrone e Antonio Gozzi, rappresentano meglio la necessità di una nuova politica industriale-ambientale, che fa parte del loro Dna, del loro impegno, della loro storia personale, rispetto ai rispettabilissimi altri candidati Emanuele Orsini, il favorito e Alberto Marenghi, il quarto, apparentemente destinato a una corsa destinata a confluire nel concorrente più forte, al momento decisivo, cioè il 4 di aprile.

Non è sciovinismo ligure quello che rivendichiamo, ma un ragionamento sull’emergenza che corre il Paese e corrono le nostre aziende chiave, a incominciare da quella dell’industria dell’acciaio, che nessuno o pochissimi in Italia e in Europa conoscono meglio di Tonino Gozzi, presidente di Federacciai. Possiamo restare senza acciaio nella sesta potenza manifatturiera al mondo, in un settore chiave dello sviluppo? E possiamo rinunciare alla competenza di Garrone nell’energia, dall’alto della epocale riconversione Erg, in un mondo che cavalca il cambiamento climatico, così come quello di Angelo Costa cavalcava l’industrializzazione di un paese post agricolo, pieno di macerie della guerra. Qui ci sono le macerie del clima nel Pianeta- terra, che spingono a cambiare più di quanto i protocolli internazionali indichino. Con le pale eoliche e con le energie rinnovabili.

E’ chiaro che la battaglia confindustriale, soprattutto negli ultimi decenni, si è svolta tenendo conto di altri equilibri più territoriali e lobbistici più che delle emergenze sul tappeto e delle risposte che i diversi concorrenti potevano fornire. E questo giustifica il fatto che Emanuele Orsini, amministratore delegato di Sistem Costruzioni e di Tino Prosciutti e Alberto Marenghi, amministratore delegato di Cartiera Mantovana e di Cartiera Galliera, siano pienamente in corsa, il primo nei panni di favorito per i cinquanta consensi già intascati, secondo le indiscrezioni.

Ma oggi tutto appare diverso e più incalzante, non solo l’uscita dalla presidenza di Carlo Bonomi che suggerisce una svolta.
I tre saggi Mariella Enoc, Andrea Moltrasio, Ilaria Vescovi avranno da dipanare una matassa che tiene conto dell’orientamento già visibile nell’atteggiamento delle Territoriali e di questa spinta “nuova” a rompere uno schema.
Resta il problema che tocca da vicino noi genovesi del derby interno tra Garrone e Gozzi. Il leader Duferco, uscito per primo dai blocchi di partenza e poi un po’ spiazzato dal blitz di Garrone, è oggi considerato, per usare il linguaggio sportivo corrente, underdog, chi corre da sfavorito, ma con un blocco di adesioni alla sua candidatura che sembra in crescita.

Il presidente Erg, che è anche presidente dell’Ospedale Gaslini e del consiglio di amministrazione del Sole 24 ore, il giornale di Confindustria, è stato lanciato in orbita dai grandi elettori come Emma Marcegaglia, un po’ la zarina di Confindustria e Marco Tronchetti Provera e Diana Bracco.
Gozzi non ha precedenti incarichi confindustriali, né locali né nazionali, Garrone è stato prima presidente nazionale dei Giovani Industriali, molto combattivo e due volte vice presidente di Emma Marcegaglia e di Luca di Montezemolo e molti anni fa anche in predicato per presiedere Confindustria Genova.

Sono non solo due imprenditori diversi, ma anche caratterialmente distanti, anche se con un buono rapporto tra di loro.
Guardare la loro sfida dentro alla corsa confindustriale è un’operazione difficile, come è difficile “pretendere” una visione solo genovese e ligure di questa corsa. Troppi fattori giocano nella scelta di ogni elettore per concentrare l’analisi con il nostro occhio parziale.
Ma ci proviamo perché il vantaggio di avere, dopo tanti anni una guida confindustriale targata Genova contribuirebbe non certo solo faziosamente a spingere soluzioni favorevoli in partite chiave del nostro territorio.

Garrone e Gozzi ragionano con ben altro respiro europeo e mondiale. Ma il loro ruolo irrobustirebbe una spina dorsale ligure genovese che ha bisogno di leadership da giocare a livello nazionale. Non abbiamo più uomini politici potenti e visibili come li abbiamo avuti, non abbiamo più eccellenze professionali che staccano, se si esclude il gigante Renzo Piano, non abbiamo neppure più ”il cardinale”, presidente della Cei e dei vescovi europei o il “prete di strada”, Andrea Gallo, che si fanno sentire per tutti da Genova.

E allora lasciateci cullare l’idea che una scelta favorevole al nostro territorio possa “corroborare” tutti i cambiamenti e le urgenze che corrono sotto la Lanterna, dall’acciaio a Ansaldo Energia, alle grandi opere infrastrutturali, studiate oggi ma anche ieri (come Il Terzo Valico, nato proprio in seno a Confindustria Genova), al ribaltamento di Fincantieri.

Resta il problema del derby. Chi dei due? L’ideale sarebbe che l’uno aiutasse l’altro a vincere e non a perdere nelle complicate manovre di voto e che poi si formasse un ticket, termine orribile ma riassuntivo di una alleanza inedita. Con questa presidenza, insieme a quella di Confitarma e di Assoarmatori, avremmo un blocco forte, non prepotente, per farci diventare una capitale di impresa. Non è poco.