Domani sera Davide Rebellin avrebbe dovuto essere ospite d'onore della società ciclistica di Pontedecimo. Gli avevano prenotato una stanza ai Cacciatori, resterà vuota come il buco nel cuore lasciato a tutti noi che gli volevamo bene, che lo contattavamo sui social per ascoltarlo, che ne ammiravamo la tenacia nel vincere la più lunga corsa a cronometro della storia del ciclismo, quella contro il suo tempo; al pensiero della sua stanza vuota siamo attoniti e desolati, noi che ci sentiamo fratelli di chiunque incrociamo pedalando, noi che ci facciamo il segno della croce quando saliamo sulla bici, quando cominciamo una salita, quando torniamo a casa indenni.
Forse Rebellin ha corso fino a cinquantun anni compiuti, quando il campione del mondo oggi ne ha ventidue, perché in qualche modo aveva intuito, aveva saputo che la nera signora lo aspettava non appena sceso di bici, sulla spianata di Samarcanda che poi era la piazzola di una trattoria vicentina; centinaia di migliaia di chilometri pedalati nel mondo, dal rettilineo di Liegi non lontano dal fruscio impassibile della Mosa al Mur de Huy scandito dalle edicole mariane come mimesi della Via Crucis, salite e discese bravamente domate, per cadere poi a due passi da casa.
Fa male vedere la sua bici grigia di carbonio accartocciata, straziante come il nitrito del cavallo di Guernica al sole caricaturale ridotto a lampadina al tungsteno, come la moltitudine di violini appesi allo Yad Vashem, come il tremendo punto interrogativo dipinto sulla casa dell'autostrada in val di Vara, sunto di tutto il dolore del mondo. Su quella Dynatek scura si fermava in salita per dar da mangiare a un coniglio che lo aspettava tutti i giorni sulla Corniche, gli metteva il cappellino e lo fotografava. Una volta aveva incontrato anche una volpe (nella foto), ammansita dal suo sorriso buono di uomo antico, levigato dalle rughe della fatica. Era un uomo di fede e lo vogliamo pensare adesso dove si pedala senza sudare, perché non riusciamo a immaginarcelo sceso di bici, come uno di noi; però siamo noi, adesso, a chiederci l'ennesimo perché.
Dove non c'è risposta, si prova talvolta a supplire moltiplicando senza necessità le domande. Ogni volta che la cronaca si fa insopportabile - che sia un ciclista ucciso da un camion, una ragazza fatta a pezzi dalla famiglia per un matrimonio rifiutato, un signore trafitto da un dardo per un battibecco, una morte violenta per amore degenerato - la forza del diritto positivo viene messa in forse da vampate umorali di giusnaturalismo alla carta. La legge smette di essere uguale per tutti, la si vorrebbe adattata alle notizie del giorno, una mappa dell'Inghilterra - paradosso borgesiano - in scala 1:1 e quindi grande come l'Inghilterra; diventa adattamento sartoriale alla contingenza del momento. Moda, insomma. E non c'è decreto che possa riportare domani sera Rebellin a Pontedecimo. Perché nemmeno l'Onnipotente è tale, incapace com'è di far regredire all'inaccaduto quel che è stato. Figuriamoci la legge.
Non tutti comprendono che la legge è un filo teso su uno strapiombo, a dividere le istanze collettive da quelle individuali. La legge però non esiste in natura, è uno strumento umano fatto di parole versicolori, stiracchiabile secondo convenienza, latitudine, regime. Perciò il popolo, e il legislatore che del popolo è approssimativa espressione, oscilla tra due aneliti contrapposti e difficili alla mediazione.
Imperversando la cronaca nera, sale così la richiesta di sanzioni aspre o almeno effettive contro questa o quella malefatta. Invece, in tempo di pace, si agita addirittura - come fanno da tempo pensatori molto assidui - l'idea del "superamento del carcere", ovvero l'individuazione di metodi alternativi alla privazione della libertà personale come conseguenza di una condotta illecita. Non sarà un bel sistema, certo, anche perché la "funzione rieducativa" spesso si perde nel concreto, perché le cose più sembrano belle a dirsi meno lo sono nel farsi; ma nella storia dell'umanità non ne hanno inventato uno meno peggiore.
L'idea che la legge abbia funzione ortopedica rispetto alla realtà ha un fondamento, relativo però e non assoluto. Si può limitare in parte il male, non estirpare radicalmente la malvagità che lo genera.
Il dilemma è insomma il difficilissimo, impossibile equilibrio perfetto tra libertà e sicurezza. Una società del tutto sicura sarà poco o niente libera, una società completamente libera sarà trucemente regolata dalla legge del più forte.
Non si può credere contemporaneamente a Darwin e a Marx, figli entrambi del positivismo ottocentesco e dell'idea che la scienza e la ragione tutto potessero, tutto avrebbero spiegato. Il primo codifica la metodica sopraffazione nel regno animale, cui noi pure apparterremmo, nella prospettiva della selezione altamente competitiva dei più astuti e resistenti come unica strada alla sopravvivenza; il secondo teorizza nell'essere umano la naturale bontà e tendenza alla fratellanza, però rovinate dalle "sovrastrutture" di una società da correggere con le cattive, perché con le buone non funziona. Sono due visioni chiaramente incompatibili, accomunate al più dal materialismo come rinuncia preliminare a ogni trascendenza, quindi al peccato originale del cristianesimo, dogma che riassume l'ammissione di una natura imperfetta e fallibile.
La storia dell'umanità dimostra purtroppo che il male è connaturato all'essere umano. E' come l'herpes zoster, tutti ce lo portiamo dentro a livello di latenza ma affiora soltanto quando il resto del corpo gli lascia strada. E' il cuore di tenebra su cui non ci vogliamo affacciare, per non ammettere che la razza umana generalmente non è buona manco per niente e al suo interno chi può, e sa di farla franca, alla prima occasione frega il prossimo. Basterebbe abolire per decreto il codice penale per un giorno solo, anche poche ore, per rendersene amaramente conto.
Come potrà essere ripagata - per esempio - la moglie di Rebellin, cui non hanno fatto neppure vedere quel che restava del suo campione, per non aggiungere dolore al dolore? Non c'è sanzione adeguata; oppure ce ne sono infinite. Ma la riparazione vera è impossibile. Il male non si spiega, si fa o si subisce. Non può essere cancellato, men che meno per legge. Se ne possono soltanto attenuare le manifestazioni e le relative conseguenze. Tutti quelli che nei secoli si erano messi in testa di costruire la società perfetta hanno fatto solo danni. Gli altri, pur manchevolmente, si sono accontentati. Ma sono stati, dopotutto, meno nocivi.
Non ci sarà festa domani a Pontedecimo, per il vecchio ragazzo che all'indomani dell'Appennino saliva la Bocchetta, tirando il gruppo dei giovani che avrebbero voluto diventare come lui. Non avrà giustizia, come non l'aveva avuta per la medaglia olimpica che non potrà essergli restituita. La morte è un maestro tedesco, o forse un camionista tedesco, da Paul Celan ai Kraftwerk. E nel buio della stanza di Rebellin resta il suono dei vuoto; il senso insensato di ogni cosa, di ogni vita.
IL COMMENTO
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