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di Luigi Leone

Stavo in terza liceo scientifico e i compiti per le vacanze erano un incubo. Ma bisognava soggiacerci. Fra questi incubi c'era il tema. Titolo: "Descrivi il tuo Presepe". Lo svolgimento poteva essere banale. Ma io - e lo dico con consapevole immodestia - non ero un ragazzo banale. Si poteva e si può non condividere nulla con me e di me, però non mi ritengo uno banale. Almeno, provo a non esserlo.

Lo svolgimento, dunque. C'era la guerra nel Vietnam, c'era una politica troppo spesso cialtrona, c'era un'umanità che aveva smarrito la strada, c'era tanta disonestà in giro (materiale, morale, intellettuale). C'era un mondo, in poche parole, che aveva cominciato a peggiorare, prendendo una china lungo la quale ancora non si è fermato.

Raccontai tutto ciò nel mio Presepe e al ritorno in classe avvenne ciò che puntualmente avveniva: "Adesso ognuno di voi viene a leggere il proprio elaborato e poi assegno un voto" disse molto compito l'insegnante. Mi chiamò per ultimo. Rivedendolo, quando ormai ero adulto fatto e giornalista, mi confidò: "Me lo sentivo che con te sarebbe successo qualcosa".

Lessi il mio tema. Era un foglio protocollo, ogni facciata divisa a metà. Lessi con trasporto, con passione. Arrivato quasi alla conclusione, abbassai il tono della voce. Stavo per dirla e quindi per farla grossa, eppure un finale diverso proprio non ero riuscito a trovarlo: "Lascio la culla di Gesù vuota, perché mai come oggi l'uomo è stato lontano da Dio". Il silenzio calo' sulla classe. Eravamo venticinque "teppisti" come amo ripetere. In realtà, ragazzi splendidi.

In quel momento nessuno osò fiatare. Gli occhi erano fissi sull'insegnante. Ci "faceva" italiano e latino, mica due materie qualsiasi: un sacerdote, che alternava con eguale eleganza l'abito talare e il clergyman. Don Nerino Marinangeli, si chiamava. Uno che quella classe così meravigliosamente turbolenta la governava dall'alto del suo sapere, del suo carisma, della sua straordinaria capacità di insegnarci in modo semplice anche le cose più difficili. Eravamo venticinque "teppisti" che ad ogni lezione pendevano, silenziosi e composti, dalle sue labbra.

Eravamo di nuovo tutti zitti, metaforicamente davanti a quella culla vuota. Il "prete", come a volte mi capitava di apostrofarlo con tono arrabbiato (e lui lo sapeva), ci chiamava per cognome e quasi tuonò: "Leone, dove hai copiato questo tema?". Lo scrutai per un lunghissimo attimo. Poi, gli risposi: "Prof, dirmi che ho copiato è il voto più bello che lei potesse darmi".

Pensai di essere stato tagliente. Forse lo fui. Lui mi guardò intensamente, vidi i suoi occhi gonfiarsi di lacrime. Ma ebbe la forza di non piangere. Il cuore mi batteva forte. Don Marinangeli non mi tolse lo sguardo di dosso. Asciutto, epperò con evidenza felice sentenziò: "Dieci, torna a posto". Ricordo le pacche dei compagni nel breve tragitto che mi separava dal banco, in terza fila, nella III B del Vieusseux di Imperia, all'epoca in piazza del Duomo.

Il clima di questi giorni, fra la gaiezza delle festività e il dramma di tante persone, mi ha riportato alla mente quell'episodio. Potrei scriverne all'infinito, a cavallo fra le questioni sociali e quelle politiche ed economiche. In realtà, mi viene istintivo un augurio a tutti ragazzi: che abbiano la fortuna di incontrare sulla loro strada, negli anni dell'adolescenza, una persona come don Nerino Marinangeli. Che prima di essere un uomo e un prete fu un insegnante.

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