Arrivo quando è finito tutto come la coda del bassethound, sono profondamente ignorante di teatro, capisco il genovese ma lo parlo in modo incommendevole. Però sabato sera alla televisione sono finalmente riuscito ad acciuffare i "Manezzi" nella versione di Tullio Solenghi. Me l'ero perso a teatro, sia a Camogli che a Genova, per le cadenze stesse della mia vita, o del mio lavoro che poi grosso modo è la stessa cosa: non puoi mai pianificare niente, perché magari compri un biglietto per un concerto, uno spettacolo, un evento sportivo, poi succede qualcosa e non ci puoi andare. Questo per chiudere il discorso, rispetto a chi di frequente mi taccia di tirapacchi. Provate a fare il giornalista anche solo per una settimana e poi riparliamone.
Ne hanno parlato molti e tutti più competenti di me, anche qui in redazione. Dico in ritardo la mia solo perché ci tenevo, ai "Manezzi", ci tenevo tanto. Perché ne ero rimasto incantato da ragazzo, quando finalmente quel gran genio del mio amico Arnaldo Bagnasco (valeva, e vale, la pena essere sampdoriano solo per aver potuto conoscere uno come lui) aveva ripescato dal pozzo del tempo le vecchie registrazioni non andate perdute. Così finalmente anche quelli come me, che di Gilberto Govi avevano sempre sentito soltanto parlare dai genitori, ne avevano apprezzato il genio. Non sono un esperto, anzi; però i "Manezzi", trama vecchiotta e prevedibile, funzionano ancor oggi soltanto perché al centro c'è l'attore immenso che era Govi. Per cui la scommessa di Solenghi era di quelle pesanti.
Non conosco Solenghi, l'ho intervistato talvolta al telefono ma solo per cose di calcio, quando il suo Genoa andava bene oppure male; come altri milioni di telespettatori l'avevo visto soltanto in trio, ovviamente sbellicandomi, anni fa ho conosciuto Gianni Marchesini fratello di Anna, che mi raccontò qualcosa del dietro le quinte di quel geniale complesso di attori. Ero insomma curioso di capire come Solenghi si fosse soltanto potuto permettere di sfidare l'idea non tanto di riprendere il personaggio di Steva, un nome con cui qualcuno mi chiama ma purtroppo sono pochi, quanto di riessere Govi. Interpretare non una parte, ma l'attore che l'aveva fatta propria. C'è un personaggio di Borges, Pierre Menard, che si prefigge non tanto di riscrivere il "Chisciotte", quanto di arrivarci maturando tutte le stesse esperienze che avevano portato Cervantes a comporre la storia del cavaliere mancego e del suo scudiero. E' un paradosso, naturalmente.
Ma anche l'idea di Solenghi lo era. E solo ora mi rendo conto che l'attore ha affrontato questa sfida alla stessa età che aveva Govi, quando accettò di recitare sì in teatro, ma in modalità di registrazione televisiva. Beh, l'effetto fin dai primi secondi di spettacolo è perturbante: le scene di Livermore in bianco e nero come se fosse ancora la vecchia tv che si ripropone, Solenghi truccato a meraviglia fino a sembrare Govi colorizzato, il suo talento di immedesimazione che supera ogni preliminare perplessità. Ma che bravo Solenghi!, mi ha dato il batticuore, fatto riprovare quell'emozione rara che sta fra la risata e il pianto. Lo ringrazio da qui, per quel che vale, peccato non averlo visto a teatro. Nel paradiso degli artisti, Govi immagino sia stato molto contento.
Non sta a me parlare come un recensore, sarei presuntuoso. Voglio però lodare chi ha avuto l'idea di inserire, nella commedia originale, un elemento estraneo al testo di Bacigalupo, un colpo di teatro che valeva tutta l'iniziativa. Non la racconto tutta, per chi non ha ancora visto lo spettacolo, però a un certo punto dello spettacolo arriva un grande pacco postale dal "barba", dallo zio, che sta a Buenos Aires, un pacco il cui contenuto verrà svelato solo a recita conclusa, prima del sipario, ed è stata davvero una botta di commozione. Sarà che invecchiando tendo colpevolmente a cedere sempre più spesso alle emozioni, sarà che quella trovata era davvero il miglior omaggio si potesse fare a Govi. Come ha spiegato lo stesso Solenghi, ormai ridiventato se stesso per quanto con addosso ancora la maschera del predecessore, prima del sipario.
Oppure sarà che ogni volta che sento parlare di Buenos Aires ripenso a come ogni esistenza contenga un'infinità di altre esistenze. Ci ho scritto anche un romanzo anni fa, su questa idea di lontananza e sulla nostalgia; e a Buenos Aires non sono mai stato. Mio nonno, il papà di mio papà, mi raccontava spesso che suo padre fosse stato, tra i fratelli scesi da Arzeno, l'ultimo pugno di case in cima alla Val Graveglia, per imbarcarsi per l'Argentina, l'unico a fermarsi alla prima tappa del viaggio verso il piroscafo, insomma a San Bartolomeo della Ginestra. Si era innamorato di una ragazza del posto, come spesso accade tu fai i piani e poi la vita te li manda all'aria; e il resto sono gli anni trascorsi qui e in Argentina da quel giorno del secondo Ottocento. Con i mezzi della modernità, questo per dire che Facebook non è solo fatuità, ho ricostruito a poco a poco qualcosa che assomiglia a una parte di storia della mia famiglia ormai priva di fonti dirette. Ho scoperto che a parte mio nonno, e i suoi cinque fratelli e relativa discendenza, il resto di quel che sarebbe stata la mia famiglia si è radicato, è cresciuto, è diventato argentino. Come spesso accade il problema nelle relazioni diplomatiche, anche quelle intercontinentali, è il calcio: tra i miei parenti ormai lontani in tutti i sensi, alcuni tifano Boca, la maggioranza, e altri River. E qualcuno - gli occhi, le sopracciglia - assomiglia ai miei vecchi.
Quando torno a San Bartolomeo, ai piedi della collina, dove ormai stanno anche i miei genitori, vado sempre a interrogare le foto dei bisnonni. Giuseppe sembra un bambino, ingenuo e assorto, morto di fatica in cantiere a trentasette anni, la sua Natalina ha un volto bello, austero e duro, orgoglioso e scuro, vedova a ventotto anni era rimasta sola e aveva cresciuto sei figli. Il penultimo era mio nonno, che di suo padre non aveva ricordi diretti. Quei due volti lontani sono la ragione per cui io oggi ci sono e sono qui, ne parlo come di personaggi letterari perché per me sono due foto appena e brandelli di racconti di persone ormai scomparse come loro, eppure sono la ragione per cui io non sono "nato parlando spagnolo".
L'Argentina è una specie di nostalgia, dalle mie parti poi morde parecchio, a Chiavari c'è un viale di villette fatte costruire da quelli che laggiù ce l'avevano fatta. L'Argentina per me è qualcosa che attiene a quel che era possibile e ora non lo è più. Mi ha ripagato della tenacia nell'inseguire questa rappresentazione vedere, sentire evocare la mia patria mancata, io che non mi sono mai sentito a casa da nessuna parte, accanto a quella Genova che mi ospita da quasi trent'anni, in fondo a una commedia esilarante, nel modo dell'elegia.
IL COMMENTO
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