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di Franco Manzitti

Osservando il grande interesse per il porto, il suo territorio e i suoi grandi e un po’ altisonanti progetti di espansione del sindaco Marco Bucci mi viene un po’ da sorridere, se penso a un passato recente. Allora se il primo cittadino fosse intervenuto spesso e in maniera approfondita sulle tematiche delle banchine, il presidente dell’allora Consorzio Autonomo del porto non avrebbe gradito.

I confini erano ben chiari e la politica, che divideva ruoli e affidava competenze, equilibrava bene i ruoli, magari anche se il sindaco, il presidente della Regione e il presidente portuale appartenevano allo stesso partito. Come è successo, per esempio, quando il sindaco era Fulvio Cerofolini e il presidente del porto Giuseppe Dagnino, il professore di filosofia, ambedue targati Psi. O come quando a Palazzo san Giorgio c’era il mitico Roberto D’Alessandro, voluto fortemente da Bettino Craxi e in Regione troneggiava l’ indimenticabile Rinaldo Magnani, socialista doc.

Oggi è tutto diverso e non solo perché il sistema dei partiti è prima crollato e poi si è così modificato. Oggi il sindaco, nella sua spinta di grande trasformazione della città, “entra” spesso e volentieri in porto, specificando doverosamente che lì comanda Paolo Emilio Signorini, ma esprimendo progetti, idee, prospettive.

Il tema è caldo perché sempre di più il porto chiede spazi per far crescere i suoi traffici, in una competizione globale che richiede operazioni kolossal, come quella della nuova Diga, che è affare del porto, ma che riguarda complessivamente la città. Nel dialogo tra Genova e le sue banchine ci sono ovviamente anche tante altre partite, non solo quella dei depositi chimici da trasferire da Multedo, ma anche quella di un allargamento dei terminal, in particolare quello di Prà-Voltri, che potrebbe diventare uno dei più grandi del Mediterraneo Occidentale.

Ma se questa operazione andasse - concedeteci il gioco di parole - in porto, la sua realizzazione cancellerebbe l’ultima, non solo in senso geografico, spiaggia libera di Genova, quella di Voltri. E muterebbe in modo sostanziale e pesantissimo l’orizzonte della estrema periferia genovese di Ponente. Questo è un affare della città e non una questione di poco peso, perché quella spiaggia, quella delegazione, insieme a Prà, possibile laboratorio di costruzione della superdiga, sono l’ultimo lembo libero di un territorio cittadino da quasi un secolo in grande credito con la città.

Il Ponente, da Sampierdarena fino a Voltri, ha pagato prezzi incalcolabili alla portualizzazione e alla industrializzazione. Spiagge, costa, mare stesso cancellati e riempiti con fabbriche, aeroporti, depositi, altre fabbriche, altre infrastrutture, stravolgendo non solo il panorama naturale, ma le condizioni di vita della parte più popolosa e più “operativa” della città in secula seculorum.

Prima che una coscienza ambientale incominciasse a spuntare, tra la fine degli anni Settanta e gli anni successivi, quella parte di Genova è stata completamente sacrificata alla produzione industriale e ai traffici. Non va dimenticato mai questa sorta di debito che Genova ha verso una parte di se stessa e generazioni intere di suoi abitanti. Certamente la contropartita di questo immane sacrificio è stato lo sviluppo economico, sociale, perfino culturale di Genova, l’occupazione, il lavoro, non solo per i genovesi ma per tanti immigrati arrivati qua dagli anni del Dopoguerra.

Ma ora quel Ponente dove “imbelinavano” ogni problema produttivo genovese, come stigmatizzava un grande sindacalista genovese, Franco Sartori, finalmente oggi ben ricordato, va salvaguardato.

A incominciare dalla “ultima” spiaggia di Voltri

Ecco che tornano il ballo il ruolo del sindaco e quello del presidente dell’Autorità portuale e il loro dialogo, simpatiche “invasioni di campo” comprese. E’ giusto che il porto organizzi la sua espansione, è giusto che il sindaco intervenga sulle banchine.

Ma prima di tutto viene Genova con la sua ultima spiaggia da proteggere.