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di Matteo Cantile

Londra - Trovo sbagliata e preconcetta la polemica politica che si è accesa in questi giorni sul pesto in salsa inglese: il gigantesco mortaio chiamato a vascheggiare sul Tamigi per reclamizzare la Liguria attraverso il suo prodotto più famoso a qualcuno non è piaciuto al punto da farne una crociata.

Ognuno ha il sacrosanto diritto di scegliere contro chi o cosa scatenare i propri strali, ci mancherebbe, ma tutto questo scandalo attorno a un’iniziativa di marketing suona un tantino esagerato.

Soprattutto in chi, come me, ha avuto la possibilità di vedere dal vivo il mortaione della discordia. Era veramente così brutto, trash e chi più ne ha più ne metta? Ha insozzato l’immagine della Liguria nel mondo, annichilito la sobrietà genovese? I Doria e i Fieschi si stanno rivoltando nella tomba?

In realtà l’installazione, perché alla fine questo era, si è mescolata egregiamente all’ambiente in cui è stata inserita: la chiatta è uno strumento di lavoro molto diffuso sul Tamigi e quella su cui è stato posizionato il mortaio era una delle tante che navigano il fiume; l’architettura che costeggia il corso d’acqua è anch’essa in piena armonia con il ferro e l’acciaio: su South Bank si affaccia la Tate Modern, forse il più importante museo d’arte contemporanea al mondo, realizzato riconvertendo una centrale elettrica. Sui Docks e poi su fino a Embankment, i palazzi raccontano storie di lavoro e industria, i ponti, uno dopo l’altro, sono vie di comunicazione stradale e ferroviaria indispensabili ancora oggi allo sviluppo della città. Qui si sferraglia, si sbuffa, si suda. La grande chiatta è una di loro.

E poi grande quanto? Anche su questo si sono accese polemiche fenomenali fatte di pugnace retorica: ebbene il mortaione non era tanto ‘one’, era della dimensione giusta, piuttosto. Doveva essere visibile da una certa distanza per assolvere alla sua funzione pubblicitaria, e direi che ci è riuscito piuttosto bene. Più piccolo si sarebbe confuso tra i battelli, le chiatte e le luci della città: direi, a onor del vero, che avrebbe potuto essere persino un po’ più grande ma tant’è.

La sua illuminazione, poi, mi è parsa gradevole: il mortaio, il pestello e il basilico si stagliavano benissimo tra le luci della città, senza risultare invasive. Avrei aggiunto, ma questa critica in giro non l’ho letta, al nome della nostra regione un rifermento al Paese: un Italy sulla fiancata avrebbe aiutato a inquadrarci meglio, non sono sicuro che i londinesi sappiano esattamente dove siamo. Così come non posso pretendere che il genovese medio conosca il Costwolds (anche se dovrebbe…), altrettanto non posso chiedere agli inglesi di recitare a memoria le regioni italiane. Magari aggiungiamolo, la prossima volta.

Si dice che tutta la missione sia costata una mezza milionata: non conosco la cifra esatta ma visto quello che il mio cameraman ed io abbiamo speso in due giorni non mi meraviglio. La vera domanda è: sono stati spesi bene?

Qui si entra in un campo che non è del tutto mio ma alcune considerazioni mi sento di farle. La fiera internazionale del turismo mi ha molto colpito: c’erano tutti i paesi del mondo, ma proprio tutti! Persino la Palestina, con il cui delegato ho discusso scherzando di quanto sia difficile vendere pacchetti turistici per la Striscia di Gaza in questo periodo. Ma non è importante farlo adesso, in effetti, ciò che conta è far sapere a tutti quante cose belle ci sono da scoprire persino in una terra martoriata come quella.

Alcune regioni italiane lo hanno capito, soprattutto quelle a statuto speciale che hanno da sempre risorse più importanti da investire: dovevate vedere gli stand della Sardegna, della Sicilia, del Veneto. Se non fosse che poco distante c’era l’Arabia Saudita, che a proposito di sobrietà ha occupato mezzo padiglione con una teoria infinita di rutilanti stand, sarebbero le nostre le regioni più cool della fiera. La Liguria sta seguendo quella strada, se faccia bene o male lo diranno i dati sull’incoming dei prossimi anni.

Ma non pensiate che i turisti vengano gratis: ho parlato con molti operatori in questi due giorni, tutti mi hanno spiegato che per aumentare la quota dei visitatori internazionali servono accordi con i grandi tour operator che non possono prescindere da un’offerta ampia e sinergica che si può presentare solo se tutte le componenti, istituzionali e privatistiche, lavorano in coro. Se non vai tu a presentare la tua offerta ci va un altro, e la fetta di torta la mangia lui.

È questa la scommessa che deve essere vinta: la promozione del territorio è una condizione necessaria ma non sufficiente. La Liguria deve presentarsi ai grandi tavoli con più camere d’albergo per ottenere più collegamenti aerei. Deve ampliare la sua proposta, deve essere credibile e accogliente. E dovrebbe essere anche meglio collegata, ma questa è un’altra storia e noi lo sappiamo bene.