C'è qualcosa che non comprendo fino in fondo nelle polemiche che avvolgono da diverse settimane la soprannominata "stanza dello stupro" nella mostra che porta a Palazzo Ducale la forza e la storia di una pittrice straordinaria come Artemisia Gentileschi, una donna prima di tutto simbolo dell'intraprendenza femminile, che da vittima di una violenza è riuscita a diventare un'artista che toccò le principali corti del Seicento e strinse amicizie con l'élite culturale del tempo. Tutto questo emerge nell'allestimento di Costantino D'Orazio che a Genova ha portato alcune delle opere più conosciute di Artemisia e ha costruito un percorso espositivo che mette a confronto alcuni dei soggetti più ricorrenti dell'artista, ricostruendo sia la sua storia personale e sia la sua carriera, anche attraverso il sapiente utilizzo del digitale. Fino ad arrivare alla sala tanto oggetto di contestazioni da parte di femministe, divulgatrici, storiche dell'arte: vedere una tale levata di scudi mi ha fatto mettere in dubbio quello che ho provato io una volta davanti a quel letto e quelle pareti che si colorano di rosso sangue, mentre risuonano le parole di Artemisia che racconta la violenza subita.
Artemisia a Palazzo Ducale, un cartello di avviso per "la stanza dello stupro" - LA VICENDA
Personalmente da donna ho rivissuto dentro di me quello che ha subito Artemisia, sentendo rappresentato quel senso di rabbia, impotenza, dolore, annichilimento di fronte all'invincibile disparità di genere, alla paura di tornare a casa di sera da sola, all'angoscia di essere vittime di stalking, alle molestie subite, al continuo leggere di storie di altre donne 'ferite a morte'. E per me tutti questi sentimenti prendono corpo sulle pareti della stanza immersiva, dando loro un'immagine potente e viscerale com'è potente e viscerale l'arte di Artemisia. Non lo trovo affatto 'voyeuristico', le parole di Artemisia sono scritte sui faldoni del processo, né "un'operazione patriarcale". Anzi, credo sia proprio un modo per far arrivare il messaggio dritto come un pugno allo stomaco a tutti.
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Comprendo, però, che le sensibilità possano essere diverse. In tv o al cinema spesso assistiamo a scene decisamente più cruente, ma è giusto avvertire sempre il pubblico che quello che si sta per vedere potrebbe urtarli: approvo allora la scelta di Palazzo Ducale di mettere un cartello e un sipario da teatro per consentire allo spettatore di scegliere se fermarsi a guardare oppure no. Eppure mi meraviglio, anche perché le opere di Artemisia non badano certo alla sensibilità, ma raccontano le cose per come sono andate. Penso al sangue che sgorga dalla testa di Oloferne, nel momento più cruento della sua uccisione come mostrano le tele agli Uffizi e al Museo Capodimonte, ma penso anche alle labbra cineree di Cleopatra mentre si sta spegnendo dopo essersi fatta mordere dall'aspide per non cadere in mano ai nemici romani.
Artemisia si veste ogni volta da eroina biblica e porta in scena il suo dramma personale e il dramma delle sue antenate. Artemisia è Giuditta, la vedova ebrea che decapita il condottiero assiro Oloferne per salvare il suo popolo. Artemisia è la casta Susanna sorpresa al bagno dai vecchioni che non accetta il loro ricatto sessuale, pronta ad affrontare la morale pur di affermare la propria verità. Artemisia è le sue protagoniste, da Ester a Giaele a Betsabea, ma è soprattutto se stessa: una donna che avrebbe voluto giustizia, che ha portato in tribunale il suo stupratore, il collaboratore del padre Agostino Tassi, che ne ha ottenuto la condanna, sì, ma che alla fine ha dovuto andare lei in esilio da Roma, vittima della morale del tempo. E che attraverso la sua arte è riuscita a riscattarsi, diventando colei che voleva diventare. Senza veli davanti alle sue opere e questo è il punto più importante. Allora mi auguro che il telo nero faccia tornare i riflettori puntati sulle opere di un'artista che a distanza di 400 anni è più attuale che mai.