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di Michele Varì
Ho finalmente visto "Io Capitano", il film di Matteo Garrone che racconta della fuga da casa di due minori stranieri non accompagnati, due sedicenni senegalesi che attraversano il deserto e dopo una tappa nel lager della Libia arrivano in Italia al timone di un barcone pieno di altri migranti, film a mio avviso bellissimo, struggente, che racconta una storia vera e che mi ha reso orgoglioso di essere italiano, cosa che non capita spesso. Ma, sarà che anche io, nato nel  Cilento e giunto a Genova a 8 anni, mi sento anche io migrante e trovo emozionante vedere il mio Paese che accoglie persone che fuggono dalla miseria.

Ma c'è un altro aspetto che mi ha colpito del film e sono le tante analogie fra l'esperienza libica del capitano senegalese, Seydou, e il racconto di quello stesso Paese di Khalifa, il ventiseienne del Gambia che abbiamo intervistato nei giorni scorsi per la rubrica Miché.

Khalifa sulla spiaggia della Foce dietro i suoi silenzi si è quasi rifiutato di svelare gli orrori che ha visto e forse vissuto in Libia, dove era arrivato per trovare lavoro. 
 
"Non sapevo neppure che esistesse l'Italia, un mio fratellastro mi ha fatto arrivare lì, in Libia, per imparare un lavoro", ha detto. 
 
In Libia Khalifa ha imparato a fare il muratore, come il ragazzo senegalese. E ha visto tante "salme", il termine non comune per indicare i morti. Khalifa ha visto tanti morti e tanto orrore. Ma non riesce a parlarne. Fa capire che li ha visti ma non lo svela, come a proteggere chi gli sta davanti. 
 
Perché Khalifa è dotato di grande tatto, dolcezza, è un migrante dal viso da bambino che non vuole disturbare. Lo dice lui stesso quando racconta dei suoi tentativi di corteggiare alcune ragazze italiane. "Non volevo disturbare per questo quando le vedevo in difficoltà mi fermavo". Per non disturbare ha deciso di sposare una connazionale. Conosciuta per corrispondenza, su indicazione della mamma. Khalifa che quando gli offri un caffè ti dice, "io non posso per il Ramadan, ma andiamo perchè non voglio che tu rinunci per colpa  mia".
 
Khalifa che quando non lavora fa volontariato, porta i pacchi in casa e fa visita agli anziani soli, va una volta alla settimana con Sant'Egidio a parlare con i migranti accampati sotto i viadotti di Ventimiglia. Credo che una persona come Khalifa sia una risorsa per l'Italia, sì una risorsa, il termine usato dai chi non tollera i migranti ogni volta che al centro di un fatto di cronaca, cronaca in cui però che non raccontano dei tanti Khalifa che ci circondano e rendono il nostro Paese più bello.

Khalifa alla fine ce l'ha fatta, lavora, posa parquet, ce l'ha fatta come il Capitano di Garrone. L'Italia che mi piace è quella lì, che accoglie, l'Italia che non riesco a capire è invece quella che respinge, abbandona in mezzo al mare e arriva a irridere i migranti raccontando che "arrivano con lo smartphone di ultima generazione e salgono sui barconi come se partissero per una crociera". Sì, crociere come quella per Cutro. Una delle pagine più nere della nostra storia, come quella del tentativo di accordo con l'Albania, trattato come una paese satellite dove nascondere la polvere sotto il tappeto. Nascondere la nostra umanità.

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