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di Matteo Cantile

Alla fine Gianni Berrino i suoi emendamenti al disegno di legge sulla diffamazione li ha ritirati: dopo il polverone che si era sollevato nei giorni scorsi sul carcere ai giornalisti il senatore ligure di Fratelli d'Italia si è defilato. “Non è stato capito – dice una fonte interna al suo partito – le pene erano state rimosse su molte fattispecie, non si trattava di un emendamento liberticida”. Ma tant'è, alla fine le proposte sono sparite.

Da giornalista è sempre difficile calarsi nel dibattito sulla liberà di stampa, uno dei pochi in cui la nostra categoria è realmente parte in causa e le nostre posizioni rischiano di essere strumentalizzate: ed è giustissimo invocare, assieme alla libertà dei giornalisti di raccontare i fatti (e anche di sbagliare in buona fede) anche la correttezza della stampa. Prevedere, però, pene detentive per un collega che racconta una storia è intollerabile.

Anche perché, e questo è il problema principale che noi viviamo sulla nostra pelle, e chi ha il ruolo di direttore responsabile di una testata giornalistica ancora di più, va tenuto conto dell'uso temerario della causa civile o penale per silenziare i giornalisti.

E' un aspetto poco noto della nostra professione eppure mina alla base ogni tentativo di ricerca della verità: quando una testata inizia un'inchiesta scomoda e mette nel mirino un individuo potente (o talvolta anche solo con un po' di soldi da buttare...) questi reagisce con una bella causa per diffamazione. Non conta nulla se il giornalista abbia lavorato con correttezza: la procedura parte, è necessario nominare un avvocato, sostenerne i costi e iniziare la propria difesa. Il primo passo è il tentativo di conciliazione che prevede, di norma, una transazione amichevole: tu smetti di parlare di me e io non vado avanti. Il giornalista in questione, o la sua testata, spesso si arrendono subito: chi è troppo piccolo, non ha budget da destinare agli avvocati, è costretto a desistere. E la libertà di stampa se ne va a quel Paese.

Molte volte, è forse il caso più frequente, la causa civile o penale non inizia nemmeno: ci si limita a una lettera molto dura indirizzata al direttore, minacciando le vie legali se non si abbandona un certo argomento giudicato scomodo. Anche in questo caso c'è chi preferisce abbassare subito la testa per non essere trascinato in un percorso giudiziario che è sempre lungo e costoso, anche quando si ha la certezza di avere ragione. E per il settore dell'informazione, oggi caratterizzato da una molteplicità di piccole testate (che però spesso hanno molto seguito) il rischio è quello di lavorare con il silenziatore, un danno gravissimo alla credibilità del nostro sistema.

Che la stampa debba fare tutto il possibile per distinguersi dal calderone dei social network è indiscutibile, che sovente i giornalisti sbaglino (come tutti, del resto) è altrettanto vero. Che il nostro ordine professionale debba vigilare e sanzionare disciplinarmente i comportamenti scorretti degli iscritti è un altro aspetto fondamentale. Ma non riconoscere che nella stampa italiana ci sia un grosso problema di libertà è un errore grave.