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di Stefano Rissetto

Il 25 marzo, tra poco più di un mese, saranno dieci anni che Antonio Tabucchi se n'è andato.

A Genova era legato. Molto. Ci aveva insegnato lingua e letteratura portoghese all'università dal 1980 al 1991, lasciando alcune amicizie importanti, come quella con l'italianista e collega di accademia Luigi Surdich.

A un medico della clinica universitaria di otorinolaringoiatria di Genova aveva affidato il padre, portato via dall'ospedale di Pisa dopo un'operazione andata male, un fatto che aveva addolorato lo scrittore al punto di indurlo a una "vendetta" letteraria, finita in tribunale, contro il professore toscano e a contrapposta riconoscenza, testimoniata nello stesso racconto "Gli archivi di Macao", per il chirurgo ligure.

Al "Corriere Mercantile", nel febbraio 1998, aveva regalato una pagina intera in forma di lunga lettera aperta a un altro amico che in quel giornale lavorava. Era La sua firma si aggiungeva a quelle - tra gli altri - di Charles Dickens, Herman Melville e lo stondaio zeneize Eugenio Montale, che per il 150° della testata avrebbe donato una poesia e un dipinto. Nel 2024 sarebbe stato il bicentenario, ma non ci saranno né il giornale né Tabucchi - come aveva promesso - a celebrarlo.

Soprattutto, a Genova lo scrittore (qui in un ritratto dell'amico Tullio Pericoli) ha ambientato una delle sue opere: "Il filo dell'orizzonte". Il romanzo molto remotamente trae spunto dai fatti di Via Fracchia del 28 marzo 1980, con l'identità del quarto terrorista rimasta ignota, fino a che le stesse Brigate Rosse il 3 aprile la rendessero nota con una telefonata: era Riccardo Dura, responsabile degli omicidi del commissario Antonio Esposito e del sindacalista Guido Rossa.

Tabucchi, appena arrivato a Genova, introiettò quel fatto per farne partire - secondo il suo stile - una storia che parla di tutt'altro. La ricerca dell'identità di un uomo ignoto che diventa ricerca di se stessi. Un'investigazione che ruota attorno a una Genova mai chiamata col suo nome, declinata in un'onomastica immaginaria (il giornale del pomeriggio diventa così la "Gazzetta del Mare"), fatto salvo il campanile della chiesa di San Donato che non era lontano da una delle abitazioni dove Tabucchi, pisano di Vecchiano che poi avrebbe avuto casa a Parigi e Lisbona, trovava ospitalità nei suoi soggiorni genovesi. Al centro storico Tabucchi dedica una delle pagine più belle e vere mai scritte su questo pezzo di città via via riscoperto e travisato un po' da tutti, da de André ai Baustelle agli infiniti giallisti seriali scultori del luogo comune, così come sul cimitero di Staglieno dove spesso Tabucchi andava per leggere i volti delle statue.

"Il filo dell'orizzonte" non è però un giallo, anche se c'è un morto sconosciuto e un investigatore dilettante, dal nome Spino che evoca il pensatore sefardita scacciato da tutte le patrie e fedi. Tabucchi amava Spinoza almeno quanto era rimasto affezionato a Genova, lasciata per assumere cattedra a Siena, ultimo suo incarico. Per sua scelta riposa ai Prazeres, in riva all'Atlantico, nella città di elezione dove avrebbe ambientato tra gli altri "Sostiene Pereira" e "Requiem", il libro che gli avrebbe dato la popolarità di massa anche grazie al film con Mastroianni e la lunga lettera d'amore a una città e a quella Isabel che torna nel romanzo postumo, alluso per tutta la vita.

Tabucchi non c'è più da dieci anni, tocca consolarsi rileggendolo per scoprire sempre qualcosa di nuovo, come la citazione di "Eichmann a Gerusalemme" di Hannah Arendt che apre "Piccoli equivoci senza importanza", il racconto che meglio di ogni altra cosa racconta l'inconsapevole suicidio di una generazione nel falò delle illusioni e delle vanità, forse uno dei racconti perfetti del dopoguerra.

Tabucchi non c'è più da dieci anni e sarebbe bello che la "sua" Genova lo ricordasse con una via, una piazzetta, un'intitolazione di uno dei posti talmente amati da restare fissati nella sua letteratura. "Tutto quello che abbiamo è dimenticanza", scriveva un poeta caro a Tabucchi: ma teniamocela cara, questa dimenticanza.