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di Franco Manzitti
Tre medici davanti al letto di un ricoverato

Come abbiamo potuto rimuovere tutto quello? Come è sparito dalla nostra memoria il dramma collettivo più grande della nostra storia recente, la pandemia, che ci ha fatto temere di morire inevitabilmente tutti?
Mentre i bilanci quotidiani aumentavano la paura con le migliaia di morti quotidiani e i camion militari trasferivano centinaia di bare da un crematorio all'altro, temevano che l'umanità potesse sparire dalla faccia della terra. E' questo che provavamo nell'intimo del nostro cuore.

La coda di morti di Covid, soffiati via dalla vita, inutilmente attaccati ai respiratori, con gli occhi disperati nel silenzio, nella solitudine, sembrava una condanna per tutti. Prima o poi sarebbe successo anche a noi.
Il documentario film di Edo Rossi e dei suoi collaboratori Tommy Licalzi, Alex Fragalà, Patrick O' Connor, tutti ragazzi, tutti ventenni, che allora erano poco più che teenager, ci fa scoprire questo. Abbiamo rimosso, abbiamo cancellato quei mesi tra il febbraio del 2020 e il 2022 o forse di meno o forse di più, in quel tempo oramai non più calcolato. Tanto è dimenticato.

Le immagini, le testimonianze intrecciate, raccolte in una sequenza che sì, quella toglie il respiro, risvegliano la coscienza di quel passaggio della nostra vita che molti hanno perso proprio per colpa del Covid e che tanti altri, per fortuna la maggioranza, hanno percorso, soffrendo una esperienza che pensavamo fosse per la sua intensità indimenticabile.
Di fronte all'attacco di quel virus è cambiata la vita personale di ciascuno ed è cambiata quella della nostra società ad ogni latitudine. Per un tempo, che allora sembrava interminabile, abbiamo vissuto barricati in casa, in città silenziose e deserte, incollati alle informazioni terrorizzanti, preoccupati di una paralisi del modo di vivere che poteva cancellare il nostro sviluppo.
Il lock down, un'altra parola evaporata.

Imparavamo tutto quello che si poteva di quel virus misterioso arrivato dalla Cina, sapevamo come colpiva, come poteva essere mortale e che morte! Vedevamo gli amici, i parenti portati via da casa da infermieri nascosti negli scafandri e trasportati in ospedali dove mancavano i posti. Dove i letti in rianimazione misuravano con la loro statistica quotidiana l'entità della nostra angoscia.
Ci affacciavamo dai balconi a gridare di speranza e poi di paura e ascoltavamo i racconti terribili di quegli addii muti dentro al respiratore, con il telefonino con il numero di un figlio, di un padre, di una madre, tenuto in mano da infermieri comprensivi, sfiniti dalla fatica e dal dolore di assistere a quello che non era immaginabile.

E poi come una luce improvvisa la speranza, il vaccino, la salvezza e la capacità di organizzarci, grazie a un sistema sanitario e prima ancora politico-amministrativo, sul quale abbiamo ripreso a sparare come se niente fosse, ma che è stato in grado di salvarci.
Questo ci ha fatto rivivere in un'ora di immagini senza respiro il lavoro Breathe, un docufilm di Primocanale, come si dice tecnicamente, ma forse qualcosa di più.
Il frutto di una idea che non è stata solo tecnica e giornalistica, con il contributo indispensabile di Tiziana Oberti, ma anche stimolo quasi etico e morale a ricostruire, a ricordare per mettere in fila personaggi, protagonisti di quel dramma, per i quali va considerata non la visibilità, ma quello che rappresentavano in quei mesi terribili e oramai rimossi.
Le capacità mediche, infermieristiche, l'umanità dell'assistenza, ma anche la dote di decidere, di far lavorare un sistema che assistesse la società intera, con le decisioni del governo nazionale, di quello regionale, dei responsabili delle strutture sanitarie, fino a quelle dell'economia travolta dalla paralisi e poi impegnata a studiare i ristori, i salvagenti.

Non vorrei qui fare i nomi, citare gli intervistati, perché chi ha visto già Breathe e chi lo vedrà li ha incontrati e li incontrerà in questo processo anti rimozione, per ricostruire i suoi sentimenti e il suo ricordo, non certo in una gara di visibilità o in una classifica.
Rivivere tutto quello non fa stilare classifiche o immaginare meriti particolari, ma ci insegna che dovremmo custodire anche un po' la sofferenza per migliorare noi stessi e contribuire a migliorare gli altri. Come è successo durante il Covid.
Purtroppo non è successo dopo.

L'unico che cito è Matteo Bassetti, l'infettivologo di san Martino, proprio perché alla fine ha fatto nel film una osservazione durissima, ma acuta, da custodire e sulla quale riflettere.
Come siamo usciti da quella terribile vicenda, incominciata nel febbraio 2020? Molti, ma non certo tutti, siamo usciti migliori, ma tanti sono usciti peggiori.
E a noi pare che il mondo intero sia uscito peggiore, che una prova simile, che era planetaria, non ha migliorato l'umanità, anzi.
Oggi, appena pochi anni dopo, ci sono più guerre, c'è più violenza diffusa, privata e pubblica, il mondo sembra malato, quel dramma non ha insegnato a proteggere da se stessa l'umanità, che tanto ha rischiato e se lo è già dimenticato.

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