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di Stefano Rissetto

Illudersi sul genere umano precipita in bruschi risvegli. Il mondo purtroppo non ha mai smesso di trovarsi in guerra, mai; e non è vero nemmeno che l'Europa ne fosse immune dalla presa del Reichstag, visto che Belgrado e Sarajevo e Mostar per esempio non stanno altrove e appena trent'anni fa erano in fiamme e macerie. Sinisa Mihajlovic, tornato a Vukovar alla fine della guerra, avrebbe raccontato di non aver riconosciuto non tanto casa sua che non c'era più, ma proprio il paesaggio stesso sfigurato dalle bombe. Ancora nell'agosto 2007, a Spalato, negli alberghi c'erano le candele di cera nei cassetti dei comodini. Da Yalta all'implosione dell'URSS anche città occidentali avanzate come Budapest, Praga, Santiago e Varsavia erano state "richiamate all'ordine" con la violenza, mentre in Asia Saigon era stata l'apocalisse del sogno americano. Kiev è soltanto un nuovo capitolo e difficilmente sarà l'ultimo. Lo preannuncia anche l'espressione indecifrabile del nuovo zar, che più di Stalin ha in mente Pietro il Grande, e che ricorda in modo inquietante il Giovanni Arnolfini mercante lucchese ritratto da Jan van Eyck nella prima metà del Quattrocento (nella foto).

Sia che lo si dia per viziato dal peccato originale, sia che lo si consideri una scimmia che abbia fatto discreti progressi, l'essere umano non è infatti buono come lo si vorrebbe. Conserva un fondo insondabile, chiamiamolo appunto male. Chi più chi meno, ma tutti.

La guerra è l'herpes zoster dell'umanità. È un virus molto strano - diceva un personaggio di Tabucchi, un copista che ritraeva all'infinito particolari delle Tentazioni di Sant'Antonio di Bosch - pare che tutti ce lo portiamo dentro allo stato larvale, ma si manifesta quando le difese dell'organismo sono infiacchite, allora attacca con virulenza, poi si addormenta e torna ad attaccare ciclicamente, penso che l'herpes sia un po' come il rimorso, se ne sta addormentato dentro di noi e un bel giorno si sveglia e ci attacca, poi torna a dormire perché noi siamo riusciti ad ammansirlo, ma è sempre dentro di noi, non c'è niente da fare contro il rimorso. I missili fanno impressione, ma non riflettiamo abbastanza su quanto possa essere infinitesimale il divario tra il più crudele dei tiranni e un tizio qualsiasi, di quelli che incontri ogni giorno, che ti fa un dispetto, una cattiveria o un sopruso che apparentemente sembrano trascurabili.

La differenza tra il dittatore che ordini una guerra e lo zotico che ti passi avanti nella fila al supermercato, non ti dia la precedenza sulle strisce, si dimentichi la ricevuta, ti faccia un piccolo sgarbo senza importanza, non è qualitativa ma quantitativa.
Perché tra l'uomo che, potendoti fare solo piccole porcherie inoffensive, puntualmente te le fa; e l'uomo che invece scatena i massacri a danno di moltitudini, spesso, anzi sempre, è solo questione di avere o non avere potere, di avere o non avere opportunità. Misura e non sostanza, appunto.
Provate a immaginare infatti cosa succederebbe se venisse abolito il codice penale per un solo giorno, anche solo per mezza giornata, anche per un'ora soltanto.

Il brutto della guerra non è soltanto la guerra. Il brutto della guerra è anche l'illusione che la guerra sia qualcosa di superabile appena volendolo, e soprattutto in modo eterodosso, nel farisaico lavacro delle coscienze sporche. A me sembrava che la Germania fosse stata sconfitta dai carri dell'Armata Rossa da est e dai bombardieri della USAF da ovest, ma forse ho studiato sui libri sbagliati: perché nei miei manuali di storia non c'era traccia del ruolo militare decisivo di marce della pace, 5' di ritardo per Salernitana-Bologna, gessetti colorati, scioperi studenteschi, bandiere alle finestre, digiuni, canzoni di John Lennon e altre armi fondamentali.

La guerra è terribile, ma anche alcuni effetti collaterali non sono giovevoli, come la demagogia e il luogocomunismo. Non esalta, anzi diciamo pure che irrita veder rispolverare artate massime e subdole filastrocche del solito manipolo di poligrafi di regime, tuttora inflitti nelle scuole non sono italiane, abili sia a salmodiar banalità che a introdursi a corte, per esempio una corte come il Cremlino di un tempo che non era meno spettrale di quello di oggi; poligrafi di regime per cui “pace” significava impedire contromisure ai nemici dei loro mecenati, che alla fin fine erano guerrafondai come e peggio degli altri, però - ci sarebbe mancato altro - a fin di bene. Perché tutte le guerre, nella testa di chi le promuova, sono a fin di bene. I cantori dell'irenismo incondizionato, della cancellazione delle spese militari e anzi già che ci siamo degli eserciti, non tengono poi conto di un dato elementare: se la loro infantile - ma chissà quanto sincera - visione massimalista avesse prevalso prima della metà del secolo scorso, non ci sarebbe stata reazione armata alcuna né all'Operazione Barbarossa, né all'ammassamento degli Israeliti nei campi di sterminio, quindi oggi probabilmente il mondo sarebbe ancor più schifoso di quanto già non sia abbastanza. Il paradosso è che molte di queste anime belle che quasi sempre sono sagome abili a recitare a soggetto, e che oggi vogliono fermare i carri armati con le torce accese, poi te le ritrovi a celebrare Mandela, i partigiani italiani, i demolitori di statue e in generale tutti quelli che si ribellano, anche con le armi se necessario, a una situazione considerata di sopruso. Così il corto circuito logico è perfetto.

Se passate alla Foce in questi giorni e leggete ancora una volta sulla Casa del Mutilato la scritta "La guerra è la lezione della storia che i popoli non imparano mai abbastanza", e magari assentite con un moto di indignazione civile, vuol dire che non vi ha detto niente la mamma, ovvero che non conoscete l'autore di quella frase.
A saperla tutta la storia, infatti, vien fuori il vero aspetto surreale, incredibile, tragico, della terribilità di una pulsione naturale, che risiede carsica nell'essere umano e a volte non si manifesta mai oppure dorme e si risveglia quando vuole, e quindi c'è in ognuno di noi. Sì, proprio ognuno.
La frase è di un uomo che in gioventù, ai tempi della prima guerra mondiale, prima era stato anti-interventista e poi interventista. E per questo aveva lasciato la direzione dell'Avanti!, mettendosi in proprio. La seconda guerra, invece, l'avrebbe gestita in prima persona. Sì, proprio lui. L'uomo che avrebbe portato l'Italia nella più rovinosa delle guerre. E quella scritta, in sé esemplare, che sta ancor oggi in corso Saffi, fu il primo e tra i peggiori a disattenderla. Come se il potere, nel suo stesso esercizio, contenesse l'innesco della sopraffazione. È questo l'uomo, siamo noi. Uno strano essere ignoto a se stesso e con se stesso sempre in guerra da sempre, capace sia delle Sonate per Clavicembalo di Scarlatti sia di Treblinka, sia della Madonna Sistina che di Nagasaki. Nel vederlo in quella specie di cabina di legno e plexiglas del Rischiatutto, mesto e grigio e monocorde nell'aula di Gerusalemme, un inviato assimilò a un impiegato delle poste allo sportello l'imputato Adolf Eichmann. Per questo la guerra ci fa così paura. Perché vorremmo infrangere lo specchio da cui ci guarda.