Fu un amore, amici, che doveva finire. L'avevo letta il giorno prima, mentre De Wolf vinceva la Sanremo. Avevo aspettato quel gol sedici anni e, ogni inizio di primavera, sono già quarantuno che lo ricordo. Ho avuto la fortuna di sincronizzare i miei vent'anni col periodo più fortunato della squadra di calcio che a volte penso sia stata lei a scegliermi e non il contrario, ma niente brilla più nella memoria di quel 22 marzo 1981: la prima trasferta da solo col permesso di papà, la prima volta non tanto a San Siro quanto proprio a Milano. Era anche la prima e unica volta che avrei visto una partita di serie B, in quello stadio che sarebbe diventato una seconda casa del cuore, di lì a un decennio, per le due partite del quinto colore sulla maglia. C'era ancora il Palasport ellissoidale, presto sepolto sotto la neve come l'Italia di Roversi, c'era ancora il luna park di Vecchioni. E chissà se sui gradoni c'era anche Enzo Jannacci, una delle persone che più ha contato per me, non prima naturalmente di chi mi aveva permesso quel viaggio. Molto tempo dopo avrei chiesto a Walter Novellino, che quella Milan-Sampdoria 0-1 l'aveva giocata in maglia rossonera, se se la ricordasse. E mi avrebbe risposto con la stessa evasiva indifferenza di Pilato a Elio Lamia, nel finale di un racconto di Anatole France che tanto piaceva a Sciascia, così capii subito che per lui era stata una partita delle tante.
Ma non fu la sola delusione germinata da quel giorno che pure molto prometteva, forse troppo. Alviero Chiorri, l'autore del gol, ebbe una non-carriera: lo pensiamo ancora come nemmeno i campioni consacrati, eppure nei numeri ha concluso davvero poco. La squadra a fine campionato restò in B, il futuro sembrava inceppato. Poco dei sogni colorati allora hanno infatti trovato posto nel reale casellario del tempo: trent'anni dopo avrei riassunto quel falò di speranze divenute nostalgie in un romanzo scritto come una Wunderkammer per Montale, un uomo dal mio stesso nome mai conosciuto, il museo delle cere della Centrale, Buzzati, la scienza degli addi, l'idea soprattutto che scrivere sarebbe potuto diventare non tanto un mestiere, quanto una risposta non vaga alla domanda sul perché fossi stato chiamato al mondo. E' una storia che comincia davvero quando la partita finisce. Che qualcuno ha letto ma nessuno ha compreso, nemmeno quello che l'ha scritta direi.
Il calcio, poi, non è in sé, a pensarci bene, quella gran cosa che sembra. Del mondo che si è intrecciato alla mia vita ho amato soprattutto non il quadro ma la cornice. Ho creduto di capirlo in una freddissima mattina a Varsavia, su un ponte sulla Vistola gelata, non lontano da un museo con una delle più ampie collezioni di Canaletto. Guardavo tutto quel bianco e tutto quel niente e pensavo a quel che era e che sarebbe stato. Inseguendo con gli occhi un pallone ho conosciuto cento e cento stazioni e miliardi di traversine, cattedrali e palazzi comparsi dal nulla nell'incertezza del primo chiarore intravisto dal finestrino, il silenzio dell'Atlantico davanti a Lisbona, gli specchi con le ruote da passare sotto i pullman della polizia di frontiera della DDR, gli occhi vuoti di una Bucarest cartavetrata da un vento glaciale e dolciastro, pane e salame e acquavite al bar di una stazione norvegese quando ancora era notte e sarebbe durata ancora. Eppure era lì per esaurirsi l'illusione che quella giostra non si sarebbe fermata mai. Sarebbe sfumata in una pizza fredda, mangiata da solo, in un locale assurdo nei pressi di un'altra stazione, tra il fiume e il Nya Ullevi, nel buio che doveva sapere di felicità ma era già diventato nostalgia. Come i viali di Vienna visti dall'alto della ruota di Orson Welles e Joseph Cotten, l'alba sul Danubio fosforo e miele nella Budapest che si sgranchiva dal lungo inferno russo. Dopo, le partite le avrei viste con una tastiera davanti, e non era la stessa cosa.
Se penso a tutto questo, prima che diventasse anche una strana forma di lavoro, mi sembra che sia stato un sogno. Resto impigliato nel vero per via dei mozziconi di racconti degli amici di allora, gli amici di oggi, con cui andavamo dappertutto e se anche non ci vediamo mai basta una volta sola, bastano cinque minuti. E al sesto minuto si torna a quel gol di Chiorri a San Siro, spesso mi chiedo se lui lo sappia, di essere stato così importante, tutto sommato per tanta gente. Oppure lo sa ma non gliene cale. Altrimenti non sarebbe lui. Quella poesia, che lessi mentre De Wolf vinceva la Sanremo, così finisce: Con pena, con lunga ritrosia ci ricredemmo. Rimane in noi il giglio di quell'amore.
IL COMMENTO
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