GENOVA - A 22 anni dalla scomparsa di Massimo Mattoni, tour operator genovese di 40 anni, c'è un'unica certezza: i resti trovati nel bosco di Borgio Verezzi nel 2003 sono i suoi. Ma è ancora giallo sulla morte, come avvenne e quando.
Il pubblico ministero Fabrizio Givri nel 2018 aveva indagato su una coppia di amici e nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione sostenendo che non ci siano prove a carico dei due. Per la procura di Genova potrebbe essersi trattato di un suicidio. Il fratello di Mattoni si è opposto e adesso toccherà al giudice, per le indagini preliminari, capire se bisogna indagare ancora oppure no.
Il primo punto fermo, rispetto a un mistero che in questi anni ha fatto aprire e chiudere diverse indagini tra Genova e Savona, è che quei resti appartengono proprio a Mattoni. La procura in questi anni ha disposto intercettazioni telefoniche, ambientali, e pure il dna sulla figlia dell'amica, analisi dei conti bancari e decine di testimonianze, senza trovare nulla di concreto da fare ipotizzare un omicidio.
Per la procura ci sarebbe una lettura più plausibile: Massimo Mattoni era depresso, tanto che poco prima della sua scomparsa era stato ricoverato in psichiatria in ospedale perché aveva tentato di uccidersi e non voleva che i suoi famigliari lo sapessero. Il medico legale, nella sua relazione, ha spiegato che non è stato possibile però accertare con sicurezza le cause del decesso visto che dai resti mancava anche una parte del cranio.
I due amici, difesi dall'avvocato Mario Scopesi, erano stati indagati anche per circonvenzione di incapace perché Mattoni aveva dato loro la procura per la gestione di conti bancari nel principato di Monaco da cui dopo la morte, erano spariti parecchi soldi. La procura aveva aperto un fascicolo contro i ignoti, poi chiuso per la prescrizione del reato.
IL COMMENTO
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