Cultura e spettacolo

Il regista brasiliano Walter Salles racconta in maniera intima l'orrore della dittatura militare rimasta al potere nel suo paese per ventuno anni
3 minuti e 1 secondo di lettura
di Dario Vassallo

Sono stati realizzati molti film sui regimi oppressivi che hanno ribaltato la democrazia di alcuni paesi sudamericani nella seconda metà del secolo scorso: Cile, Argentina, Uruguay e in questo caso Brasile dove la dittatura è rimasta al potere per ventuno anni. Le violazioni dei diritti umani con torture sistematiche, omicidi e sparizioni forzate rappresentano una ferita aperta nella psiche di queste nazioni, per le quali il cinema è spesso servito come veicolo di memoria collettiva. E tuttavia non è capitato spesso che lo spirito di protesta contro gli orrori delle varie giunte militari sia stato visto attraverso una lente così intima come quella di ‘Io sono ancora qui’: mentre l'angolazione di molte di queste pellicole tendeva a svilupparsi attraverso rievocazioni violente o processuali in grado di catturare l'angoscia e l’ansia inflitte ai cittadini, Walter Salles si concentra su una saga familiare e soprattutto sul punto di vista di un sopravvissuto. 

Una storia vera

Il film è tratto da un libro di Marcelo Paiva che racconta la scomparsa forzata del padre Rubens nel 1971 a Rio de Janeiro. Ex-deputato arrestato per essere interrogato a causa delle passate affiliazioni politiche e della sospetta alleanza con le forze di opposizione, Paivas fu assassinato durante l'interrogatorio mentre le autorità negarono che fosse mai stato fatto prigioniero. Salles incentra tutto sulla moglie, Eunice, che con silenzioso eroismo si assume da sola la responsabilità di tenere unita e protetta la famiglia, nascondendo il proprio dolore ai cinque figli quando l'inevitabile notizia della morte del marito viene confermata e continuando a lottare negli anni successivi con una caparbietà che la porterà a conseguire una laurea in giurisprudenza, ad avere una carriera di successo nella difesa dei diritti degli indigeni e delle questioni ambientali e nel 1996, venticinque anni dopo, ottenere finalmente il riconoscimento della scomparsa del marito, ricevendone il certificato di morte.

Una famiglia in posa davanti al fotografoUna scena di 'Io sono ancora qui'

Un film né manipolativo né indulgente

‘Io sono ancora qui’ racconta una storia molto delicata in maniera più che corretta: non è mai manipolativo, non è indulgente, rarissimi i primi piani perché la macchina da presa mantiene sempre una distanza rispettosa dal momento che al regista interessa che l'attenzione sia sulla storia e non sull'emozione cui può indurre. Molto del merito della riuscita del film va all'attrice Fernanda Torres che incarna ogni emozione di Eunice con straordinaria efficacia mantenendo allo stesso tempo un certo stoicismo che rende particolare la sua interpretazione: è un personaggio non segnato dalla disperazione ma piuttosto dalla forza, si reinventa non perché deve andare avanti ma piuttosto perché vuole andare avanti, mantenendo sempre una dignità immacolata.

La libertà non deve essere mai data per scontata

Se c’è un limite in questa storia di forza e resilienza sta nella presenza di un doppio finale, il primo ambientato nel 1996, il secondo nel 2014, che nulla aggiunge al significato della vicenda. Detto questo, è un solido dramma familiare che getta luce su una pagina vergognosa della storia brasiliana. Nonostante l'ambientazione nei primi anni '70, dittature e tirannie purtroppo non sono una cosa del passato, il che rende ‘Io sono ancora qui’ opera di grande attualità che ci ricorda come la libertà non dovrebbe mai essere data per scontata, e lo fa senza cadere in trappole retoriche. Un esempio: quando un fotografo in visita alla famiglia chiede di sembrare tristi per la telecamera, non solo tutti rifiutano ma riescono a malapena a contenere il loro divertimento. Il film di Salles ci dice che la speranza è eterna e che la maggior parte delle famiglie felici anche nelle disgrazie troverà comunque un modo per sopravvivere.

 

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