Eugenio Montale aveva creato un mondo a Monterosso, era vissuto tra la Firenze del Viesseux e la Milano del Corriere della Sera, dove era entrato redattore ordinario a più di cinquant'anni per l'unico lavoro vero mai affrontato; la Milano dove se n'era andato oggi, il 12 settembre di quarant'anni fa; riposa in un piccolo cimitero a San Felice a Ema, non lontano da dove era fiorito Bartali. Qualche tempo fa, per un disguido del possibile del tutto montaliano, era corsa voce che la concessione cimiteriale fosse scaduta. Quanto ne avrebbe sorriso.
Genova, dove è nato, è un dettaglio marginale della sua opera, che si dischiude alle Cinque Terre per volare su velodromi parigini, mezzelune edimburghesi, perfino la Madonna dell'Orto a Chiavari, il capo dove finisce la terra; La sua città era rimasta un equivoco, in questa figura pure di grande genovese emblematico, che in dialetto amava autodefinirsi "stondaio", parola fossile in un lessico di immensa ricchezza da obbligare lettori inavveduti a dotarsi di dizionario. Amava il desueto e l'intempestivo e lo faceva anche con i vocaboli: per esempio il lemma "belletta" ovvero - semplificando - fanghiglia compare due sole volte in tutta la storia della lingua e della letteratura italiane: nella Commedia dantesca e in uno dei Mottetti. Proprio qui si apre "l'oscura primavera di Sottoripa", epifania concessa ai luoghi dove il giovane Eugenio voleva diventare cantante lirico ma fu costretto al diploma da ragioniere, per via dell'azienda familiare di prodotti chimici, che lo avrebbe condotto per vie oblique a scoprire Italo Svevo ed esserne riscoperto. A Sottoripa sarebbe stato Tabucchi, nei suoi anni genovesi, a ritrovare l'ombra del poeta, usandone un verso per titolare una lettera aperta al "Corriere Mercantile", che Montale aveva celebrato nel 120° anniversario della fondazione con un disegno e il verso "Naviga sulle onde del tempo".
E poi certo c'era pure il Bristol di via Venti, dove Eusebio clandestinamente incontrava Clizia: la letterata ebrea statunitense che se ne era innamorata, prima del poeta e poi dell'uomo. Lei tornò in America, lui le scrisse lettere su lettere, andate perdute: il più bell'epistolario inesistente, ormai, del nostro tempo, anzi di quello di loro due, anch'esso inesistente.
Montale, per quanto "stondaio" e intrattabile, è il Golem della cultura del suo tempo: a pubblicargli il primo libro è Piero Gobetti, a decrittarlo sono Bobi Bazlen - il maestro dell'appena scomparso Roberto Calasso, che editò per Adelphi una magnificente edizione critica dei "Mottetti" appunto, solo quelli, curati da Dante Isella - e Gianfranco Contini.
Quarant'anni dopo, nella Genova dalla memoria che si sfolla, Montale è uno stretto ambulacro a ridosso del teatro lirico, un minuscolo giardinetto in Circonvallazione, non lontano dalla casa natale di corso Dogali oggi privata e corredata di una targa. Eppure, con Alighieri e Leopardi, è reputato nella critica internazionale - uno per tutti, Harold Bloom - la voce più importante della letteratura italiana di ogni tempo.
Ma la dimenticanza umana del chiacchiericcio era forse destino di questo cultore della memoria, di quest'uomo complesso e schivo, sempre in fondo stupito di essere arrivato a Stoccolma a prendere il Nobel, sul palco davanti al re di Svezia con la faccia di chi pensa di essere stato scambiato per qualcun altro (nella foto). Era l'uomo che poteva dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", che se ne andava "zitto tra gli uomini che non si voltano con il mio segreto". E che anche quarant'anni dopo - già, "volarono anni corti come giorni" - chi ha usato e usa il suo Libro, come bussola impazzita all'avventura per attraversare l'esistenza, ricorda con un altro suo verso: "Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto".
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Eugenio Montale quarant'anni dopo: la sua opera supera la dimenticanza
Il 12 settembre 1981 moriva a Milano il poeta genovese, Nobel 1975 per la Letteratura
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