E’ quasi un rito di purificazione quello che s’è consumato in Senato. Il voto di fiducia a un giovane reduce di quelli che furono i pilastri della partitocrazia italiana – la Dc e il Pci – chiude l’epopea del berlusconismo, che per vent’anni ha costruito le sue fortune proprio sulle macerie di quel sistema. Paradossalmente, però, non è un ritorno al passato. Semmai, una finestra che si spalanca sul futuro. Forse, il dubbio in questo strano Paese è d’obbligo, il concepimento di un’Italia finalmente capace di sedersi con “normalità” al tavolo delle democrazie occidentali. L’ultima incredibile piroetta, che lo ha portato senza alcun ritegno a ordinare di votare sì dopo aver tentato di far saltare il governo e trascinarci alle elezioni, dimostra che il Caimano sarà certamente in grado di assestare ancora duri colpi di coda. Ma ormai nuota in acque nelle quali la corrente contraria è più forte della sua resistenza, più forte delle giravolte disinvolte alle quali ci ha abituato e che ormai neppure stupiscono.
A Silvio Berlusconi vanno riconosciuti dei meriti: ha sdoganato la destra quand’ancora a incarnarla era un partito con matrici fasciste ai limiti della costituzionalità, ha sollevato questioni chiave come l’eccesso di burocrazia, la pesantezza fiscale, i ritardi e le storture della giustizia, consegnando inoltre la politica a un bipolarismo che, per quanto imperfetto, ha tracciato una strada dalla quale nei prossimi anni sarà difficile deviare. Fattosi capo dei moderati, mietendo di consensi per la sua abilità anche di “vendere frigoriferi agli eschimesi”, il Cavaliere s’è però poi rivelato un vero alfiere della destra più becera: culto della personalità, utilizzo a piacere dei mezzi di informazione, rifiuto di accettare i suoi giudici come qualsiasi cittadino deve fare (anche se l’anomalia di 51 procedimenti va riconosciuta), vizi privati mescolatisi a quelli pubblici, fino a confondere i due livelli. A ben vedere, il Berlusconi “destro” ha gettato la maschera quando ha convinto-costretto la maggioranza del Parlamento a votare un documento in cui si diceva che la signorina Ruby Rubacuori davvero era stata scambiata per “la nipote di Mubarak”, l’allora leader egiziano. Lì, sotto le due dita di cerone, le rughe stirate e i capelli ricomparsi a coprire la calvizie di cui si vergognava, è comparso il volto di un Cavaliere assai simile a quei dittatori da operetta, inclini a piegare al proprio volere e ai propri interessi un intero sistema politico ed economico.
Il gesto con cui, pochi giorni fa, ha deciso di staccare la spina al governo, per sfuggire in qualche modo al suo destino di condannato in via definitiva e utilizzando il consenso popolare che può rimanergli come grimaldello per forzare l’irrevocabilità delle sentenze, è solo la conseguenza logica del suo atteggiamento e del suo approccio alla politica. Con l’aggravante della buona fede, cioè del fatto che lui sul serio si sente “unto dal Signore”, il messia capace di risolvere i grandi problemi italiani con gli stessi metodi – non sempre dentro le regole – che aveva usato per costruire il suo impero di imprenditore televisivo. In questo gioco rivelatosi perverso, Berlusconi ha finito per far affogare alcune buone intuizioni e il suo stesso sogno di entrare nei libri di storia con le stimmate dello statista. Ha via via accumulato un deficit di credibilità che è esploso a livello internazionale al punto da ridurlo a macchietta. E l’Italia con lui. Un gap diventato ancor più evidente in questi mesi e in questi giorni, quando un premier fresco anagraficamente e che ha sempre dato la netta impressione di “sapere di cosa si parla” ha invece conquistato le platee europee e quella americana, tanto che tutte le principali cancellerie mondiali si sono espresse augurandosi che Letta potesse rimanere al suo posto.
Nel segno del contrappasso, questa è anche la scelta compiuta da Angelino Alfano, il segretario voluto da Berlusconi per il Pdl e oggi l’uomo che lo ha costretto ad una retromarcia dall’evidente sapore della sconfitta più bruciante. Alfano, anche nel recente passato, è stato usato dal Cavaliere nel modo peggiore, ridotto a zerbino, a travicello obbligato a inseguire i cambiamenti d’umore del Capo, a scrivere le leggi ad personam e a tentare di piegare le cose al volere e agli interessi del boss. E’ sembrato ed è stato, a lungo, un cieco, muto e sordo esecutore di ordini. Con lui, però, Berlusconi ha commesso il più grave degli errori, ne ha sottovalutato la natura di siciliano ferito nell’orgoglio e la capacità a lungo frenata di rialzare la testa e dire basta. E’ stato il corto circuito fra il bauscia apostolo del “ghe pensi mi” e il “terrone” testardo ma ancora dotato di dignità a terremotare il mondo berlusconiano. Un sussulto che Alfano ha avuto appena si è reso conto che, questa volta, l’uomo al quale aveva concesso la sua fiducia in bianco stava andando oltre i limiti del consentito, trascinando nel baratro il Paese. E ha deciso ch’era il momento di dare quella sua fiducia a un’altra persona, Enrico Letta, con cui, oggi – anche ascoltato il lucido discorso del premier alle Camere - sente di condividere molto più di ciò che ancora può unirlo al suo passato e al Cavaliere. Nel momento cruciale, Alfano, e con lui gli altri ministri del Pdl e altri parlamentari con loro, hanno fatto la loro scelta. Ma hanno vinto la battaglia, ora devono combattere la guerra: impadronirsi del partito e togliere di mezzo il padrone di sempre. Avranno il coraggio di farlo? O, se le loro forze numeriche risultassero insufficienti, sapranno compiere l’ultimo strappo e abbandonare la vecchia casa, per cercarne, o costruirne, una nuova? Perché in un Paese strangolato dal terzo debito pubblico del pianeta, da una disoccupazione giovanile record, dal prolungarsi della recessione, da una pressione e da una infedeltà fiscale insostenibili, sarà pur vero che non si può stare con chi aumenta le tasse. Come ha detto Berlusconi. Ma men che mai si può stare con chi si dimostra senza pudore e le tasse le evade. Come ha fatto Berlusconi.
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IL COMMENTO/ La sconfitta del Cavaliere senza ritegno
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