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E’ più importante mettere in sicurezza Banca Carige o continuare ad assicurarne il ferreo controllo da parte della Fondazione? La disputa fra il top management del più importante istituto di credito ligure e il principale azionista (oltre il 46%) ruota tutto intorno a quel punto di domanda. Nel mezzo, l’aumento di capitale da 800 milioni, imposto da Bankitalia per rimettere in sesto Carige. In base alla delega ricevuta, l’operazione va realizzata entro il prossimo 31 marzo e il consiglio della banca – dal presidente Cesare Castelbarco Albani all’amministratore delegato Piero Montani – si è mosso in questa direzione predisponendo tutti gli adempimenti propedeutici, a cominciare dalla costituzione del consorzio di garanzia, chiamato a intervenire qualora una parte dei titoli di nuova emissione rimanessero invenduti.

La Fondazione, però, non ci sente e insiste nel chiedere un rinvio. Lo fa, al termine di una riunione fiume prima del Consiglio di indirizzo e poi del cda, proponendo una formula di compromesso che tende a evitare il conflitto con la banca. La trovata è questa: andare avanti secondo il timing imposto dalla delega e da Bankitalia, ma convocare un’assemblea che stabilisca i tempi entro i quali l’aumento di capitale verrà concretamente attuato. E’ una richiesta di rinvio in forma surrettizia, perché si chiede alla banca di procrastinare scientemente ciò che, invece, potrebbe fare più rapidamente. Una pasticciata soluzione all’italiana, che magari avrebbe avuto qualche possibilità di miglior sorte se fosse stata concordata in via informale ed entro limiti “commestibili”, mentre risulta assai difficile che una procedura rallentata ad arte possa trovare consenziente Bankitalia e la stessa Consob, l’organismo che vigila sulle società quotate in Borsa.

Tutto ciò avviene perché la Fondazione non ha i denari necessari a coprire la quota di ricapitalizzazione che dovrebbe sottoscrivere e, quindi, nella peggiore delle ipotesi vedrebbe la propria partecipazione diluita fino al 14%. “Il rischio – sostiene il partito del rinvio in Fondazione – è vederci sfilare la principale banca del territorio”.

Alcune riflessioni, però, si impongono. Partendo dalla risposta al quesito iniziale, che vien da sé: la cosa più urgente è mettere in sicurezza Banca Carige. Il capo azienda, Montani, mostra di avere idee chiare e polso fermo: ha già fatto ampiamente ordine nei conti, è pronto a varare (la data indicata è il 24 marzo) un piano industriale in perfetta sintonia con le necessità dell’istituto e avrebbe persino messo sul piatto le proprie dimissioni qualora prevalesse la linea di congelare la ricapitalizzazione. Ora bisogna vedere come reagirà all’ipotesi di usare il ralenty, ma resta un fatto che Carige intesa come banca sarebbe nelle condizioni di lasciare il bacino di carenaggio e rimettersi a veleggiare in mare aperto.

La Fondazione, invece, continua a traccheggiare. Ha valutato quali danni rischia di provocare al proprio principale cespite? Bankitalia aveva già concesso un rinvio (l’aumento di capitale doveva essere realizzato entro il 31 dicembre scorso) e ha convocato i vertici dell’istituto per fare il punto: di fronte a un eventuale, perdurante immobilismo, potrebbe decidere per il commissariamento della banca. Magari con incarico allo stesso Montani: ma ci si rende conto di che cosa questo significherebbe?

La stessa Fondazione non è esente dal pericolo di finire commissariata: il nuovo titolare del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha una storia molto poco incline a “maneggi” tipo questi in salsa genovese e nella sua nuova posizione di garante nei confronti della comunità finanziaria internazionale non può certo consentire rinvii artefatti sulla stabilizzazione di una delle banche italiane, Carige appunto, che finiranno sotto la diretta vigilanza della Bce. Dal primo aprile prossimo, non fra vent’anni. Ha un che di surreale, peraltro, che la Fondazione insista a chiedere tempo per le dismissioni varate con l’obiettivo di ridurre l’entità della ricapitalizzazione: finora è stata venduta la società di gestione del risparmio, mentre per tutto il resto del paniere nessuno si fa avanti.

Del resto, poiché il mondo degli affari non è frequentato da Orsoline, è inimmaginabile che i potenziali compratori di quei beni si facciano sotto adesso e non successivamente, visto che il venditore è stato messo nella posizione peggiore, cioè quella di cedere degli asset per stringenti necessità di cassa. Accade ogni giorno, non è il caso di scandalizzarsi. Ciò che stupisce, poi, è che a tre mesi dall’insediamento del nuovo vertice, la Fondazione, guidata da Paolo Momigliano, sia riuscita solo a decidere di ingaggiare dei consulenti. Con risultati dubbi, se il massimo è proporre un rinvio, vero nei fatti anche se finto sulla carta, mentre non risulta alcun concreto contatto con uno o più “cavalieri bianchi” che si affianchino alla Fondazione per garantirle il controllo sulla banca attraverso un patto di sindacato. Lo stesso complicato compromesso uscito dal Consiglio di indirizzo e dal Cda dell’ente avrebbe un altro senso se fosse esplicitata l’esigenza di mettere a punto un’operazione del genere con tanto di nome e cognome del possibile e o dei possibili partner.

Si naviga a vista al buio e in questo modo la Fondazione sta mostrando evidenti limiti nella costruzione della sua strategia d’emergenza, ma soprattutto sembra ignorare quello che può ritenersi il pericolo dei pericoli: oggi per l’aumento di capitale bastano, si fa per dire, 800 milioni. Ma fra qualche mese la somma rischia di essere ben superiore: perché ci sono crediti in sofferenza che potrebbero diventare inesigibili e perché, finendo sotto la vigilanza della Bce, ci sarà pure l’obbligo di garantire anche i crediti “in bonis”. Non è un’ipotesi remota, quindi, che anche un rinvio artefatto produca esattamente ciò che la Fondazione dice di voler evitare: perdere la presa su Banca Carige.

E comunque: meglio avere il 14% di un’azienda bancaria sana e proiettata verso il futuro o il 46% di qualcosa che varrà molto, molto meno di oggi?