politica

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“Una luce in fondo al tunnel? Ho paura sia un treno”. Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, lo disse quasi due anni fa giusti, ai primi del settembre 2012. Aveva ragione! Da allora il Paese non ha fatto progressi significativi e adesso l’Istat certifica che è di nuovo finito in recessione. Il Pil è sceso dello 0,3% su base annua e dello 0,2 sul trimestre precedente: stavamo meglio quando ci sembrava di stare peggio. Con buona pace di tutte le più ottimistiche previsioni del governo, diventate coriandoli di carta straccia.


Non si può dire che il dato sia sorprendente. Era fin troppo chiaro che le rilevazioni statistiche ci avrebbero sbattuto in faccia la realtà, perché dopo un avvio beneaugurante il nuovo premier Matteo Renzi troppo presto ha preso la deriva di riforme che non danno da mangiare. L’Italicum, cioè la legge elettorale? Il Senato dei non eletti e dei senza stipendio, ma con l’immunità? Se mai fosse stato necessario, ora è chiaro a tutti che non erano e non sono queste le urgenze del Paese. Per carità, le regole della democrazia sono basilari ed è certo che vadano riviste, ma se davvero Renzi aveva ed ha in mente di non andare a elezioni prima della scadenza naturale della legislatura (2018) perché sta impiccando se stesso, l’esecutivo, il Parlamento e l’Italia tutta a riforme che ben avrebbe potuto affrontare dopo aver cercato di rimettere in linea di galleggiamento l’economia?


Probabilmente il premier mente sapendo di mentire quando parla di durare fino al 2018 – roba che neanche le scatolette a lunga conservazione – ma intanto il conto lo pagano i cittadini. L’inerzia del governo attuale, infatti, si sposa a quella dei precedenti. E, in alcuni casi, alle loro malefatte. I nodi arrivano al pettine, e non è la prima volta, perché il grande rinnovamento propugnato da Renzi è in realtà un film già visto. Anche lui si è acconciato a provvedimenti spot – sia nel senso di episodici sia in quello di autopromozione – e due esempi bastano per tutti: gli 80 euro e il dimezzamento del tributo camerale versato dalle imprese.
Nel primo caso doveva trattarsi di un importante segnale dell’inversione di tendenza. “Magari – disse il prode Matteo – con quei soldini una famiglia ci va a mangiare la pizza”.

Non è successo, ovviamente. E la ragione è semplice: quella pur modesta cifra è stata letteralmente divorata dalle imposte locali, cresciute a dismisura negli anni perché i governi, anziché virtuosamente tagliare le spese improduttive e la burocrazia dello Stato, hanno trasferito su Comuni e Regioni la loro abituale inclinazione a tartassare i cittadini. Chiunque fosse l’inquilino, Palazzo Chigi ha cercato di recuperare consenso, lasciando a sindaci e governatore il cerino acceso fra le dita.


Risale ormai a una decina d’anni fa l’ammonimento arrivato da uno dei più illustri amministrativisti italiani, il genovese Victor Uckmar: “Finché non si riforma per intero e sul serio la Pubblica amministrazione, il massimo che potrà accadere è trasferire il gravame impositivo dal livello centrale a quello periferico”. Appunto. Ed è questo il modo con cui si pretende di far ripartire il Paese? O quello di mettere la sordina ai commissari per la spending review – ultimo Carlo Cottarelli – quando hanno l’ardire di affermare verità solari, cioè che il governo spende soldi non ancora risparmiati?


Il modo non è neppure quello di inventarsi il dimezzamento del tributo camerale annualmente versato dalle aziende. Renzi l’idea l’ha partorita poco dopo aver annunciato che i fondi per ridurre l’Irap – l’incredibile imposta che si paga sul numero dei dipendenti, come a dire che se dai lavoro anziché favorirti ti fanno pagare più tasse – non c’erano. Il tributo camerale ridotto, così, è diventato un miserrimo palliativo (siamo nell’ordine, in media, dei 50 euro), anche questo un segnale di inversione della tendenza. Direbbe l’immortale Totò: “Ma mi faccia il piacere!”.


La verità è che di politica economica in questo Paese non se ne vede neanche l’ombra e che si procede per infingimenti, mirabolanti previsioni di crescita puntualmente riviste al ribasso e calci negli stinchi a coloro – commissari alla spending piuttosto che Ragioneria dello Stato – che lanciano precisi e pressanti avvertimenti sul pessimo stato dell’arte. La conseguenza è che i conti pubblici andranno ancor più a farsi benedire e che senza un cambio di passo vero la situazione è ulteriormente destinata a peggiorare.

Sarà pur stata la politica rigorista imposta dalla signora Angela Merkel a contribuire a cacciarci in questa brutta situazione, ma noi ci abbiamo messo e ci stiamo mettendo molto del nostro. Anche un certo Renzi lo affermò, quando disse al suo compagno Enrico Letta di farsi più in là perché da quel momento in poi ci avrebbe pensato lui. Peccato che sembri aver smarrito la memoria e i pensieri.