“Un po’ sì, molto no”. Un autorevole esponente del Partito democratico mi ha risposto in quel modo quando gli ho chiesto se il “caso Liguria” è in cima ai pensieri della leadership nazionale dem. E mi ha spiegato. Un po’ sì, perché il vicesegretario Lorenzo Guerini lo hanno mandato a Genova lunedì scorso e, salvo ripensamenti, lo mandano di nuovo domani per un ultimo tentativo di ricucire la situazione. Molto no, perché tanto per l’assemblea regionale del 30 giugno, poi slittata, quanto per quella in programma appunto domani il numero due di Matteo Renzi arriva senza un preciso mandato in tasca. Dunque dimostrando la volontà di svolgere più che altro una funzione notarile.
Dal che la conclusione ineluttabile: Guerini prenderà atto che tra le fazioni in guerra non c’è alcuna possibilità di scegliere un traghettatore condiviso e se ne andrà annunciando un commissario. Il quale, prevedibilmente, sarà un parlamentare proveniente da una regione limitrofa – Piemonte, Lombardia, Toscana, forse Emilia Romagna – o un componente della segreteria nazionale. In ogni caso, sarà la certificazione del fallimento di ogni mediazione a livello locale e anche del pilatesco atteggiamento del vertice del partito.
Non serviva la sfera di cristallo, in verità, per capire come sarebbe andata a finire. La stessa missione separata a Roma delle diverse componenti del Pd ligure lasciava poco spazio alla fantasia. Il suo esito era sufficientemente chiaro nella tendenza di un commissariamento: troppo incancrenite le divisioni, anche a livello personale, per concedere margini di negoziato.
E i fatti seguiti si sono incaricati di confermare la situazione: Raffaella Paita è diventata capogruppo in Regione Liguria e Pippo Rossetti ha ricevuto la nomina a vicepresidente della medesima assemblea regionale sebbene il dimissionario segretario regionale del Pd, Giovanni Lunardon, e i suoi sostenitori avessero chiesto, anche a Roma, che tutte le scelte fossero “condivise”, facendo un unico pacchetto di argomenti sui quali provare a ricucire gli strappi che tormentano il partito da Ventimiglia a Sarzana.
Non è andata così e non poteva andare così. Nonostante la pesante sconfitta elettorale, i renziani-paitiani continuano a vedere in Lunardon la causa principale della disfatta alle urne, così come il segretario regionale uscente – che pure ha clamorosamente sbagliato la gestione dell’intera vicenda, a partire dalle Primarie – non vuole consegnare il partito in mano alla fazione avversa. Ora, se la Liguria avesse un peso politico riconosciuto da Matteo Renzi, Roma avrebbe ben diversamente affrontato la questione, come ha fatto – pur considerando le debite proporzioni e la diversità degli accadimenti – nel caso di “Mafia capitale”, con Fabrizio Barca – peraltro non un renziano – spedito subito a commissariare i circoli romani.
Alle latitudini liguri, invece, la procedura che scaturisce dal sostanziale menefreghismo romano prevede che domani si ripeta l’inutile e dannoso rituale dell’assemblea, durante la quale ancora una volta voleranno gli stracci. E se non voleranno sarà solo perché tutti, ormai, desiderano quel commissariamento che normalmente dovrebbe essere imposto dall’alto e che, invece, sarà paradossalmente “imposto all’alto” dalle “bande piddine” in guerra fra di loro.
Tardivo appare anche il monito giunto dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, secondo il quale “insistendo a parlare di ruoli si continua a ripetere un errore fatale”. Vero. Ma sia Orlando sia l’altro ministro ligure, Roberta Pinotti, non hanno brillato per tempestività e lungimiranza di posizioni. Né hanno mostrato di saper far pesare dentro il partito – in Liguria come a Roma - la rilevanza del loro stesso ruolo istituzionale.
Senza indulgere a infingimenti o insensate terapie di gruppo, in realtà la strada del commissariamento della Liguria era segnata fin dalla notte del 31 maggio, quando le urne si sono incaricate di sbattere in faccia al Pd quali e quanti sbagli fossero stati commessi – a Genova, ma on soltanto - al punto da consentire il successo del centrodestra e del suo alfiere Giovanni Toti. Si arriverà alla stessa conclusione, ma nel modo peggiore. Cioè non per una consapevole decisione dei vertici nazionali del partito, animato dalla volontà di gestire la giusta incazzatura manifestata dagli elettori, bensì perché la signora Paita e il signor Lunardon, allo stringere dei discorsi, erano e restano l’una contro l’altro armati. E viceversa.
Il tutto, mentre sullo sfondo si fa sempre più difficile anche la situazione del Comune di Genova, dove il Pd è il principale partito di maggioranza, ma non riesce a incidere sulle decisioni e neanche riesce più a garantire quella maggioranza. Per come abbiamo visto andare le cose a livello regionale, se non ci sarà un colpo d’ala i dem si preparino a cinque anni di opposizione anche a Tursi. E poco importa che il sindaco Marco Doria arrivi (galleggiando) o non arrivi a fine mandato. E’ solo questione di tempo. Perché il Pd che guarda il proprio ombelico e il Pd del “commissariamento dilazionato” non hanno futuro.
politica
Il Pd ligure non pesa, verso il commissario e senza futuro
Ruolo notarile per i vertici nazionali
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