cultura

In "11 minut" il regista polacco mischia tra loro sette storie diverse
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Se ieri Marco Bellocchio aveva composto il suo film attraverso due storie che filavano a distanza di secoli come rette parallele senza incontrarsi mai, Jerzy Skolimowski in ’11 minut’ di storie ne costruisce sei o sette (si fa fatica persino a tenerne il conto), tutte con il proprio più o meno grande carico di tensione, e le mischia tra di loro come dentro un frullatore, circoscritte all’interno degli undici minuti del titolo, dalle 17 alle 17.11 di un giorno qualunque.

Allora vediamo: c’è un marito geloso che perde la testa perché l’attrice sexy che ha appena sposato ha un colloquio con un viscido regista di Hollywood; un ex-galeotto venditore di hot dog con un figlio incauto corriere di droga; una giovane donna disorientata; uno studente travagliato con una missione pericolosa da compiere; una frenetica squadra di paramedici; un gruppo di suore affamate… E forse mi sono dimenticato qualcosa. Una sezione trasversale di abitanti di una qualsiasi metropoli, in questo caso Varsavia, le cui vite finiscono in qualche modo per incrociarsi fino alla tragedia finale.

Dico subito, per me uno dei migliori film in concorso con il quale il regista polacco torna ai suoi livelli migliori (L’australiano, Moonlighting) dopo anni di piccolo cabotaggio. Pellicola eccessiva e fiammeggiante, strepitosa anche negli eccessi, di sorprendente freschezza per un uomo di settantasette anni che ti prende e non ti molla più e in meno di un’ora e mezza ci ricorda come noi si cammini su ghiaccio sottile, percorrendo il bordo di un abisso, con l’inimmaginabile che può nascondersi dietro ogni angolo. Così il futuro è solo nella nostra immaginazione.

A Skolimowski non interessa mostrarci caratteri o motivazioni quanto piuttosto seguire i suoi protagonisti attraverso una serie continua di momenti quasi astratti, accidentali e banali come solo la vita può essere. E quel circoscrivere tutto tra un inizio girato utilizzando telefonini, fotocamere, computer e telecamere a circuito chiuso e una fine dove alcuni monitor di controllo delle forze dell’ordine si moltiplicano a dismisura fino a riempire tutto lo schermo consegna i personaggi ad un cyber-cimitero (o, se preferite, ad una ‘nuvola’, un ‘cloud’) nel quale siamo anche imprigionati tutti noi. Niente ci salverà, e tanto meno la tecnologia.