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In uno di questi, Tursi, abita un monaco eremita. I suoi confratelli non si conoscono, non hanno nomi, sono silenziosi. Invisibili. Il popolo non riesce a comprendere che cosa faccia l’Eremita, dove e come si muove e che cosa combinino i confratelli, soprattutto quelli dell’ordine monastico dei Piddiini, dedito alla predicazione.
A poche centinaia di metri, in un palazzo costruito all’inizio del secondo millennio da un signorotto locale di cui oggi s’è persa ogni traccia, governa il Margravio dell’isola, gran viaggiatore inviato dalla Padania.
Intorno, i sudditi.
L’isola è difficilmente raggiungibile. Solo due volte l’anno, un veliero porta olio e generi alimentari dalla Capitale. Per il resto i collegamenti sono affidati a coraggiosi mercanti che viaggiano su tortuose carrettiere che valicano l’Appennino o a rare tradotte che impiegano giorni e giorni per raggiungere la Padania.
L’isola ha un nome affascinante e misterioso: Zena. E una lunga storia che ormai si è perduta proprio per questa sua inaccessibilità.
Poi un giorno venne un’ audace compagnia di trasvolatori e l’isola misteriosa si collegò alla Capitale dell’Impero. Ma i trasvolatori pretendevano per il trasporto della durata di 50 minuti, tariffe incredibili, esose, pari a quelle che i mercanti spendevano per raggiungere le Meriche. Meglio andare nelle Meriche o nella Capitale? Se lo chiedevano molti sudditi, attendendo che l’Eremita Tursita e il Magravio con la 24ore alzassero la voce, battessero i pugni di ferro sui tavoli romani. Vana attesa.
Così l’isola scomparve dalle carte geografiche. Il Margravio si trasferì nella Capitale con il suo seguito, l’Eremita si barricò in un convento dedicandosi allo studio, i monaci Piddiini furono cancellati dai seguaci di una Badessa del convento di Montemarcello e i sudditi ripresero a mugugnare, rassegnandosi a vivere di liti, castagne secche e funghi raccolti nei magri boschi di Torriglia da un anziano mago in quei pascoli esiliato.
IL COMMENTO
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