
Il raffronto con altri modelli continentali non è praticabile, perché ogni sistema calcistico ha le sue peculiarità. Dal metodo della contrattazione libera individuale si è passati a quello collettivo, senza che il calcio italiano guadagnasse in modernizzazione e qualità: anzi.
Inoltre il principale argomento adoperato dai grandi club focalizza, purtroppo, l'esito negativo delle avventure internazionali, specie in Europa League, delle altre squadre. Accanto a “intruse” come Chievo e Udinese, in Champions fa da esempio negativo anche la Sampdoria, che nell'agosto 2010 si era presentata al playoff deliberatamente indebolita, rispetto al gruppo del quarto posto, finendo eliminata a detrimento del coefficiente nazionale.
Insomma: tutti vogliono soldi in più. Ma agitare un vago solidarismo, peraltro stonato in bocca a imprenditori quasi tutti emersi nel libero mercato, può servire a irretire i tifosi, ma non sposta i termini della questione: finora i miliardi (di euro) immessi dalle tv nel calcio italiano hanno prodotto un costante aumento dei costi (dagli ingaggi dei giocatori all'ipertrofia degli organigrammi), senza giovare alle voci fondamentali come impiantistica, marketing, didattica, vivai. Tutti campi in cui l'Italia è rimasta quella della differita di un tempo alle sette della sera sulla Rai, se non tornata addirittura indietro.
Riequilibrare l'assetto a vantaggio delle piccole, insomma, avrebbe una sua credibilità soltanto vincolando una quota delle rispettive fette a investimenti strutturali mirati. Altrimenti, si continuerà a versare acqua in un secchio sfondato.
*in onda tutti i martedì alle 21 su Primocanale
IL COMMENTO
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