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Il commento
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Sono stato un genitore della generazione Erasmus. Lo sono stato per due volte e tutte le due volte in Spagna, ad Alicante prima, poi a Valencia. Erano, allora, i primi ragazzi Erasmus che partivano per la loro irripetibile esperienza, da soli, fuori dall’Italia, insieme a tanti altri ragazzi europei, americani, asiatici, africani. Quelli degli appartamenti spagnoli, degli orari sballati, degli esami anche un po’ così. Mesi indimenticabili per loro e per noi, genitori apprensivi, attaccati alla sera davanti a skype.

Vigliaccamente in queste ore non sono riuscito a fissare gli occhi sulle fotografie di Francesca e delle sue compagne. Facce troppo belle, occhi troppo luminosi, troppo felici, troppo uguali a quelli dei miei figli.

Poche ore dopo, ecco i folli di Bruxelles. Ancora sangue e ancora molti ragazzi tra le vittime.

Che cosa dobbiamo fare? Impedire a questi giovani di essere, loro sì, veramente europei? Non come noi, così retorici nel fare gli europei e così pronti a alzare le nostre belle frontiere di comodo. Questa generazione, questi studenti, appartengono all’ incontenibile élite culturale che Genova (e l’Italia) vecchie cariatidi egoiste, si fanno scappare. I ragazzi ai quali non abbiamo saputo dare prospettive. Non dico il lavoro, ma almeno le prospettive di vita.

Così scappano, felici di essere il grande e solidale esercito di Erasmus. E noi, oggi, ci straziamo, vicini e tremanti, abbracciati ai questi papà e mamme, traditi. Ma non possiamo fare niente: l’unica chance che dobbiamo offrire ai figli è quella di scappare nelle soleggiate notti islandesi o sulle spiagge catalane. O a Parigi e a Bruxelles, per sentirsi almeno liberi di pensare, sognare e fare gli europei.

E noi qui, ormai ogni giorno, a macinare l’ansia di un aeroporto, di una stazione ferroviaria, di un metro o, addirittura, di un’autostrada catalana.