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Il confronto sulla crisi del Pd in Liguria
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Al dibattito aperto da Mario Paternostro su Primocanale.it con il commento "La Battaglia perduta" si unisce l'intervento di Simone Regazzoni, docente di Estetica all'Universita di Pavia e membro dei garanti del Pd ligure (*).

Ho letto con grande interesse l’articolo di Mario Paternostro che analizza i risultati dei ballottaggi. E su molti punti sono d’accordo. Credo che la cosa peggiore che in questo momento il Pd possa fare sia chiudersi a riccio, in una discussione tutta interna. Il dibattito deve esserci. A tutti i livelli. Anche sui media che hanno un ruolo centrale nella formazione dell’opinione pubblica e nella partecipazione democratica. A volte so di dire cose scomode. Ma il ruolo degli intellettuali non è quello di essere degli yes-men. Bensì di “dire la verità al potere” (Edward W. Said).

E’ un vezzo della sinistra quello di rifugiarsi in analisi socio-economiche nei momenti di sconfitta. Un vezzo comprensibile. Permette di elaborare facilmente la sconfitta come tradimento delle proprie radici, dei propri valori, della propria identità: in un momento di crisi non avremmo dato risposte reali ai bisogni. La soluzione allora appare semplice: tornare a ciò che eravamo, alla nostra storia, ai nostri valori. E il peggio passerà.

E’ un passaggio retorico, questo, che a sinistra ha sempre un suo effetto. Almeno consolatorio. Che però scema subito di fronte alla domanda: ma tornare dove? Non certo a Marx e Lenin. Tornare, al limite, al modello Bersani, che ha dichiarato: “Pd è di sinistra? Bella domanda... Lo è poco. Non vedo altra possibilità che un Pd che si corregge. Senza un Pd di sinistra non si può governare il Paese”.

Ecco il punto. Quando si chiede più sinistra, nel Pd, non siamo di fronte a chissà quale nuovo modello di sinistra che dovremmo mettere in campo per vincere. Non siamo al ripensamento del modello di welfare o all’elaborazione di una vera politica su temi chiave come sicurezza e immigrazione. Siamo alla riproposizione consolatoria della vecchia ricetta che negli ultimi vent’anni ha consegnato l’Italia a Berlusconi. Niente di più, niente di meno. Aggiungiamo che i 5Stelle – movimento complesso, cui va sicuramente riconosciuto il merito di aver costretto la politica italiana a rinnovarsi – cominciano ad essere additati da sinistra come il Male ("sono peggio della peggiore destra!" si dice) e ci ritroviamo nella stessa triste cornice che ci ha fatto meritatamente perdere per troppi anni contro Berlusconi.

Renzi ha fatto degli errori? Sì. In primo luogo ha fatto l’errore di non trasformare davvero un vecchio partito di massa in un moderno partito del leader post-ideologico in grado di rispondere in modo adeguato alle esigenze della “democrazia del pubblico”.

Oggi abbiamo il dovere di valutare gli errori fatti, ma di essere sufficientemente coraggiosi per rifiutare qualsiasi consolazione retorica. Non c’è nessun passato a cui possiamo ritornare. Prendiamone atto. C’è un futuro da costruire. Lavoro difficile: perché le vecchie mappe non sono più utili. Siamo di fronte a una cesura storica. E le cesure storiche richiedono nuovi paradigmi, non aggiornamento di vecchie eredità. Ma questo si può fare solo con la capacità di ripensare radicalmente se stessi, e le ragioni di una sconfitta.

Partiamo da qui, allora. Dalla sconfitta. C’è un dato politico generale che emerge dai ballottaggi. Il Pd perde perché non sa rispondere alla domanda di innovazione che viene dalla società civile. Il Movimento 5Stelle (per dinamismo della struttura politica, nuovo linguaggio, nuove idee, nuovi volti, posizionamento post-ideologico) è oggi, nella sua posizione di outsider, il soggetto che meglio riesce a rispondere a questa domanda di innovazione. Da vedere se saprà anche governarla: ma non è un buon argomento, questo, per non riconoscere la grande capacità dei 5Stelle di essere un movimento che prende i voti di tutti, il modello 2.0 di un catch-all party.

Potrà sembrare un’eresia: ma dobbiamo saper imparare dai 5Stelle, se vogliamo batterli. Se con supponenza attendiamo che si dimostrino incapaci di governare, potremmo avere brutte sorprese.

Stringiamo ora il nostro obiettivo. Veniamo alla Liguria. A Savona. Abbiamo perso. Anche se avevamo un’ottima candidata. Come già accaduto per le regionali. Perché? Per diverse ragioni, tra cui il fatto che chi ha perso le primarie non ha lavorato, per usare un eufemismo, per la candidata vincente. Ma il vero nodo è un altro. Abbiamo perso perché il Pd è stato giudicato dai cittadini una vecchia oligarchia che blocca il rinnovamento, un partito strutturalmente (al di là del fatto che sappia amministrare più o meno bene) incapace di aprirsi all'innovazione: nuove idee, nuovi volti, nuovo linguaggio. Incapace di confrontarsi con i bisogni reali.

Siamo bravissimi a organizzare convegni, seminari, dibattiti affollatissimi – da noi. Quando si tratta di parlare dei problemi reali delle periferie a partire dai bisogni, dal linguaggio e dalla sensibilità di chi questi problemi li vive quotidianamente siamo spaesati o peggio infastiditi. Concordo con Mario Paternostro quando dice: “Il Pd ha liquidato scioccamente il tema strategico della sicurezza e della migrazione. Senza considerare che i poveri migranti sono a vivere gomito a gomito con altri cittadini oppressi dal disagio della crisi. Vedi la vicenda del mercatino abusivo e ora legalizzato di corso Quadrio. Il Pd non ha un’idea della città. Non ne ha discusso apertamente. Vale per Savona e varrà soprattutto per Genova”. Se vogliamo davvero tornare a vincere dobbiamo essere onesti fino alla crudeltà, e dire che questo giudizio è fondato.

Qualsiasi volto nuovo innestato sul corpo della vecchia oligarchia del Pd locale rischia di venire bruciato dal rifiuto dei cittadini. Vale per Savona come per Genova. Dove un gruppo dirigente anagraficamente giovane, ma poco coraggioso, vivacchia all’ombra di vecchi highlanders, come qualcuno li ha efficacemente chiamati, che continuano a dare la linea e a lavorare dietro le quinte senza avere un’idea di città. Per questo: ben vengano i confronti, e le discussioni, e i dibattiti, e i documenti, e gli appelli all’unità. Per questo, sicuramente, sarà fondamentale discutere di contenuti, e programmi, e bisogni reali della società. Ma: se non cambiamo i gruppi dirigenti, se non mettiamo fine al regno degli highlanders, e rendiamo davvero protagonisti i militanti e operativi gli organismi, saremo spazzati via.