È l'uomo dei 'tinelli marron', ma anche 'l'uomo camion', il cantore della provincia e del suo immaginario, il cantautore dandy senza messaggio, ma anche il poeta che ha cantato meglio l'amore, in tutti i suoi passaggi, senza tremolii sentimentali. E questo al ritmo del jazz e della milonga con tanto di fisarmonica, piano, vibrafono, sax e kazoo. Ma Paolo Conte, ottant'anni oggi, è anche un avvocato, un disegnatore, un accanito enigmista, un lettore di thriller scandinavi che dimentica subito e, infine, un timido pieno di fascino. Voce rauca, sporca, e cultura piemontese-francofona, Conte, nato ad Asti nel 1937, ha scritto capolavori come Azzurro, Vieni via con me e Parigi e cantato di tutto senza mai prendersi troppo sul serio e mettersi in cattedra.
"E' verissimo, io non appartengo alla categoria storica dei cantautori che erano molto più giovani di me e portavano avanti istanze sociali, così non ho mai tirato fuori il cosiddetto 'messaggio'", ha detto in un'intervista. E ancora sulla provincia: "Non è una posa. Anzi, mi è stata fatta spesso una sorridente accusa di essere provinciale. Ma ho sempre spiegato: guardate che tutto sommato la provincia è una passerella di personaggi ben stagliati, per cui diventa abbastanza facile poterne scrivere, poter individuare certe sagome". I suoi personaggi sono spesso soli, innamorati infelici, inadeguati rispetto a donne che li dominano, ma anche portatori di una mascolinità antica, antimoderna, ma mai anacronistica. Insomma Paolo Conte è un artista che ama le donne come gli uomini di una volta, con rispetto e mistero. Dice in Madeleine sul disincanto dei sentimenti: "Certi gatti e certi uomini spariti in una nebbia o in una tappezzeria mai più ritorneranno. Con il tempo tutto vola via, ma qualcuno è tornato sotto certe carezze...".
Personaggi solitari i suoi, pieni di malinconie e disincanti non troppo diversi dalla sua natura: "Alla fine sono un po' il mio specchio. Io sì, sono solitario, non mi piace la vita sociale, non mi piace la massa, coltivo poche amicizie, vivo fuori dalle metropoli. Forse mi proteggo". Amante di poeti come Gozzano, Caproni e Sbarbaro, nelle sue canzoni ammicca sempre a un certo esotismo con posti mai vissuti davvero come Timbuctù, Babalù e Zanzibar e lo spiega così: "Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell'altrove, tipico degli scrittori del Novecento, una forma di pudore che fa sì che certe storie della nostra vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano, più immaginifico, più fantasmagorico, per attutire il senso della realtà e trasformare la povertà che può esserci nel contenuto di una storia raccontata in qualche cosa d'altro".
Se si dovesse descrivere, Paolo Conte sceglierebbe sicuramente la parola dandy e non certo snob come ha intitolato un brano del suo ultimo album, 'Amazing Game', solo strumentale: "Ci sono tre categorie di persone che un pochino si somigliano: l'intellettuale, lo snob e il dandy, a cui mi illudo di appartenere. Il dandy è uno che cerca la bellezza in profondità senza assolutamente tirarsela, come si dice oggi: cosa che fa piuttosto lo snob, che è un parvenu, mentre il dandy è proprio sostanza, è vero". Infine la donna descritta in 'Blue tango': "Sul ritmo oscuro di una danza, piena di sogno e di sapienza, la donna coglie i suoi ricordi anche i più stupidi e balordi. C'è in lei una specie di cielo, un'acqua di naufragio, dove giustifica e perdona tutta la vita mascalzona".
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L'autore di Azzurro ha cantato l'amore e la provincia
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