
Al momento, per la verità, più che vederlo in viaggio lo si è visto nei panni di ospitante: insieme con il governatore ligure Giovanni Toti ha incontrato arabi e cinesi, poi ha visto i britannici e infine - in ordine di tempo - il commissario straordinario dell'Ilva, apripista della cordata internazionale ArcelorMittal, nuova proprietaria del colosso siderurgico.
Non si può dire che Bucci e Toti pecchino di di pigrizia. L'idea di portare degli investitori esterni, italiani o stranieri che siano, a Genova ce l'hanno eccome e si stanno sbattendo per centrare questo obiettivo. È un genere di affari complicato, però, sul quale sarà bene intendersi subito e su cui gli stessi Bucci e Toti faranno bene a farsi capire senza equivoci.
Loro, infatti, sul tavolo possono mettere non molto: qualche sgravio sulla fiscalità locale, un po' di sburocratizzazione sulle pratiche di competenza di Comune e Regione, delle agevolazioni quando di mezzo ci saranno eventualmente delle autorizzazioni anche di tipo edilizio o legate all'utilizzo-destinazione degli spazi. Secondo promesse, Bucci comincerà presto, Toti ha già cominciato.
Non è molto, ma neppure poco, soprattutto se paragonato ai parametri di altre non meno importanti città italiane. Poi, certo, il neosindaco è il governatore possono calare l'asso di una città e di una regione senza eguali per bellezze naturali e architettoniche, mitezza del clima e qualità della vita (quella non conteggiata anche con la qualità di certi servizi principalmente pubblici...).
Ma tutto ciò può davvero bastare per spingere delle imprese forestiere a scommettere su Genova? L'interrogativo non è ozioso e non c'entra niente con l'abitudine tutta nostrana di indulgere al mugugno o di vedere il bicchiere mezzo vuoto anche quando altri si sbattono per cercare di riempirlo. Qui si tratta solo di fare un sano esercizio di realismo e di stare attenti a non creare aspettative che poi potrebbero andare deluse.
Che Bucci e Toti ci provino e nel farlo si espongano anche, inseguendo un po' di legittimo consenso, è comprensibile. Ma siano accorti nel chiarire che di scontato non c'è assolutamente niente. Perché al di là di ciò che potranno offrire di proprio ai loro interlocutori, resta un fatto: qui si tratta di cercare a trovare chi sia disposto a mettere dei soldi per investire in un Paese, di cui Genova e la Liguria fanno parte, ancora assolutamente ingessato. Avvitato nelle sue disfunzioni.
L'Italia resta il luogo dove per aprire una pizzeria, come racconta un libro-esperienza di successo, ci vogliono sessanta (!) autorizzazioni, dove la giustizia civile non dà alcuna garanzia di celerità e certezza della sentenza, dove la burocrazia statale non vuol fare neppure un passo indietro ed è immancabilmente pronta a prenderti alla giugulare, dove il sistema fiscale non solo è opprimente, è pure talmente bizantino da darti torto anche quando avresti ragione.
Insomma, a fronte delle condizioni di favore che Bucci e Toti possono creare per chiamare a Genova e in Liguria degli investitori (sembrano lontanissimi i tempi in cui il sindaco Marco Doria, sostenuto dal Pd, scriveva agli sceicchi della Piaggio sbertucciandoli...), esiste uno scenario nazionale che rema decisamente contro. Allora deve essere chiaro: provarci è un obbligo, considerando le condizioni il cui versano la regione e il suo capoluogo, ma riuscirci è tutto un altro paio di maniche.
IL COMMENTO
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