Dopo gli estenuanti, costosi, deludenti processi del G8, è arrivato il momento di riconoscere i limiti delle procedure giudiziarie ordinarie , con riferimento alle vaste aree (sociali, politiche , economiche ) sulle quali esse vanno a ‘cadere’ , più o meno intenzionalmente , sempre più spesso e con effetti spesso irreparabilmente devastanti. Il crimine – sino a non molto tempo fa – costituiva un episodio, la rottura di un ordine che bene o male si poteva dire ‘costituito’ , garantito e protetto dallo Stato - anche se pigramente - nelle sue articolazioni amministrative e giudiziarie. Quando poi era lo Stato a commettere un crimine – attraverso i suoi ‘servitori’ – la giustizia taceva o allargava le braccia, impotente.
Oggi non è più così. La giustizia opera ‘in diretta’, sul presente, un presente lentissimo a passare. Il crimine (una specie di diffusa , se non condivisa o accettata, illegalità ) non è più una rottura dell’ordine, ma ne è divenuto parte integrante. Si parla di ‘cultura della corruzione’. Si ‘conta’ sull’illegalità, o almeno se ne tiene conto nella miriade di scelte che costellano la nostra vita : quella privata come quella pubblica, si tratti d trovare lavoro a un figlio o di non dispiacere il proprio superiore . Lo Stato stesso , cui abbiamo affidato il compito di difenderci dall’illegalità, non ne è più ritenuto indenne . Oggi la giustizia – come un chirurgo e non più come un anatomo-patologo – è chiamata sempre più spesso a intervenire sulla carne viva della società e delle stesse istituzioni che la reggono. Non importa la dimensione ‘mediatica’ o politica del processo. Può essere lo spacciatore extra-comunitario , il poliziotto che ha obbedito o creduto di obbedire a un ordine, il funzionario che ‘aggiusta’ una gara : distesa sul tavolo è quasi sempre una realtà vivente, fatta di chiaroscuri e di penombre, con rari sprazzi di luce. Questo curioso paziente pretende di alzarsi e continuare a vivere,e si attende dalla giustizia ordinaria il miracolo di una guarigione che essa non è più in grado di ottenere né promettere.
Più ci accorgiamo di essere disperatamente assetati di giustizia, più ci rendiamo conto che la giustizia ordinaria è sempre meno in grado di soddisfare quella sete. Chiediamo nuovi strumenti, ma non possiamo farlo sulla sola spinta della delusione. I nuovi strumenti possono nascere solo dal riconoscimento della natura del bisogno che li invoca. In altri paesi, di fronte a patologie ben più gravi e devastanti ( ma simili nel meccanismo e negli effetti ) si è tentata con successo la strada delle ‘truth and reconciliation commissions’: commissioni per la verità e la riconciliazione. In Sud Africa, ma anche in Cile in Salvador e in altri paesi , si è riconosciuto che la strada della verità passa attraverso quella della riconciliazione e in un certo senso si confonde con essa.
Sotto i ferri del chirurgo è ancora la ferita mai rimarginata dei giorni del G8. Si guardi alla Diaz o a Bolzaneto , la giustizia dello Stato è costretta a riconoscere i propri limiti. Il vero problema è nel saper riconoscere che non c’è verità senza riconciliazione , come ( paradosso non solo cristiano) non ci può essere punizione senza perdono. Non si tratta di ‘buonismo’ o connivenza. Le ‘ commissioni’ che si invocano da più parti non devono ‘riparare’ agli errori o alle insufficienze della giustizia, ma devono intraprendere – con grandissime difficoltà e sofferenza – la strada della riconciliazione, si parli della guerra civile di liberazione, degli anni di piombo o delle tragiche giornate del G8. Solo in questo modo si potrà non ‘accertare’ giudiziariamente la verità, ma ‘ristabilirla’ in una società finalmente riconciliata e davvero civile.
IL COMMENTO
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