Una città per cantare, suonava Ron qualche anno fa. Ma anche per giocare a calcio, se quella città è Genova, dove il calcio italiano è nato con il Genoa e dove la società più giovane, la Sampdoria, si è rivelata la non metropolitana più vincente del dopoguerra. Ma non solo. Genova (e la Liguria) culla del calcio anche e soprattutto per la passione espressa dalle rispettive tifoserie, che persino in periodi di crisi come l’attuale sono state capaci di esprimere oltre 44.000 abbonati. Un record. E forse risiede proprio qui il motivo per cui il dibattito sullo stadio, nuovo o vecchio, investe, coinvolge e divide la città come da nessun’altra parte: altrove le decisioni strategiche ed economicamente importanti viaggiano al di sopra delle teste della gente comune.
Qui no, qui si discute, si dibatte, si presentano progetti, addirittura “suggestioni”, ognuno dice la sua. Spesso a sproposito. Ma l’importante è partecipare, come nella migliore interpretazione decoubertiana dello sport. Almeno sinché poi non si giunge al nocciolo della questione: i soldi, o meglio le palanche. Chi ce li mette, o per ristrutturare il caro e neanche troppo vecchio “Ferraris” oppure per costruire un nuovo impianto? Il Comune si chiama fuori, i privati come Garrone sono pronti a intervenire ma soltanto sui “loro” progetti, altri enti, come la Fondazione Genoa, presentano studi tanto interessanti quanto non apertamente finanziati.
Intanto, la gente continua ad andare allo stadio, anche perché alle porte c’è il derby, dove tutti si dimenticano di tutto, persino dei denari necessari a dare corpo a un nuova e moderna struttura. Già, perché per vivere una partita come la stracittadina non servono i soldi, basta solo immaginare la vittoria. E i sogni non costano nulla, a differenza degli stadi. E’ la sublimazione dell’essere tifosi. Per di più genovesi. Mentre le cose vanno avanti senza che nulla cambi. Ha ragione chi sostiene che il calcio sia una parabola della vita, talvolta persino di quella politica e sociale.
IL COMMENTO
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