Ho capito studiando la storia millenaria della sua famiglia perchè Cesare Castelbarco era “il principe”, ma non solo nel titolo nobiliare, nella sua genealogia sprofondata nei secoli e nelle vicende importanti di questo Paese e della sua formazione.
Lo era, forse ancor di più, principe, nel suo stile, nel suo equilibrio, nella sua moderazione, in quella che una volta avremmo chiamato saggezza, nel saper vivere in un mondo e in una società sempre più competitivi, duri, spietati, lasciatemelo dire, spesso sempre più volgari. Il contrario di quello che era Cesare Castelbarco.
Quella storia, quel sangue di generazioni e generazioni, lo avevano come raffinato, non rendendolo l’esemplare di una èlite magari considerata superstite di un’era che non c’è più, ma piuttosto l’esempio di come vivere il proprio tempo, mantenendo i crismi migliori di una educazione accumulata, inscalfibile, quasi fuori dallo scorrere degli anni.
Cesare Castelbarco era sempre impeccabile, e non solo nello stile estetico, nell’eleganza perfetta, mai ostentata, dei suo doppiopetti, dei suoi capotti, delle cravatte, dove non c’erano mai toni, colori eccessivi, ma nel modo di porsi, di affrontare qualsiasi interlocutore, qualsiasi situazione.
E’ stato un uomo -ponte in questa città così difficile, nella quale era cresciuto soprattutto durante l’’età adolescenziale, dividendosi con Milano, con la Lombardia meneghina, ma non solo quella. Basta pensare alla imponenza della tenuta in Lomellina della Sforzesca, una delle dimore ereditate dal ramo di sua madre, i Gropallo.
La Sforzesca che era stata la casa di caccia di Ludovico il Moro, che poi la sua famiglia aveva ereditato e che è condotta oggi dal suo amato fratello Marcello. Ma poi c’era lo Zerbino, quella villa fantastica, come un’ oasi fuori dal tempo nel cuore di Circonvallazione a Monte, dove Cesare aveva abitato e che non perdeva mai di vista e dove c’era sicuramente un pezzo del suo cuore.
Un uomo-ponte perché il lato genovese della sua vita, dei suoi interessi, dei suoi incarichi, diplomatici come il consolato del Lussemburgo, manageriali come la Prosper, agenzia marittima del suo profondo back ground professionale, finanziario-politico come la Presidenza della Filse e tanti altri importanti, delicati, che continuava a ricoprire, lo hanno sempre spinto a mettere Genova, il suo sviluppo, anche le sue difficoltà davanti a molti dei suoi altri interessi.
Battersi per Genova per il principe era una questione di impegno personale, professionale, quasi etico. Ha accettato anche ruoli scomodi in momenti difficili, come la presidenza di Carige, rischiando e probabilmente soffrendo in silenzio anche la controffensiva che quella sfida aveva scatenato.
Ma non lo avresti mai visto lamentarsi, accusare, denunciare pubblicamente. Quello era un servizio che rendeva alla comunità genovese in cui credeva. I fatti gli avrebbero dato ragione e lui non lo avrebbe mai rivendicato.
Me lo ha spiegato indirettamente questo spirito, nella puntata di Dinasty che Primocanale ha dedicato alla storia della sua famiglia, ricordando in una lunga intervista anche come sua madre contestasse a suo padre i troppi impegni pubblici, compreso quello di sindaco in un piccolo comune lombardo. “Ho ricevuto tanto_ aveva risposto suo padre_ è mio dovere restituire.”
Credo che questa sia la chiave del suo impegno, delle responsabilità che si prendeva spesso anche non richiesto, semplicemente perché andava fatto.
Era un ruolo, il suo di “principe” dei fatti, perfettamente misurato con il suo stile: esserci, dare una mano, magari un passo indietro rispetto alla ribalta. Castelbarco c’era sempre e sapeva muoversi anche contro la parte avversa ( non riuscirei a chiamarli nemici) meglio di molti altri, anche di esperti politici.
Aveva i geni per farlo, per apparire fuori dalla mischia magari anche quando questa c’era eccome, con le sue idee, con le sue convinzioni. Sempre spiegate con calma, magari ironia, mai con prevaricazione.
Da perfetto uomo-ponte si divideva tra Genova e Milano e quando non era a Genova, la sua assenza nelle questioni più delicate, nei ruoli che via via aveva ricoperto e continuava a ricoprire, si sentiva.
A luglio lo avevano nominato presidente della banca Ponti e questo era un nuovo riconoscimento alto, che chiudeva come un cerchio nel suo impegno nel settore finanziario.
Per molti era quasi divertente chiamarlo principe, quasi come se un po’ nobilitasse i suoi interlocutori, quel titolo, quel “sangue blù”, che non si sarebbe mai sognato di rivendicare.
Ma il fatto era che non c’era nulla di stonato, di fuori luogo, di fuori tempo, di fuori moda, magari di sussiego esagerato, in quella interlocuzione, rivolta a Cesare Castelbarco Albani Gropallo Simonetta.
Perchè quel titolo esisteva nella carne, nel sangue, nella pelle di Cesare Castelbarco, un uomo che oggi Genova piange, scoprendo una mancanza, una assenza che si faranno sentire. E certamente non solo nella famiglia di Primocanale, che lo aveva da tanti anni come azionista, ma ancor più come amico e fedelissimo sostenitore- consigliere nei momenti belli, in quelli difficili. Ora sono purtroppo solo tristi.
IL COMMENTO
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