Il calendario impietoso propone stasera un altro impegno proibitivo, contro la Lazio. Quando però alla prima sconfitta pesante della Sampdoria, quella di Salerno, ripartono i malumori contro la presunta pochezza della squadra e di chi la guida, bisogna ricominciare a far funzionare la memoria. E non bisogna andar indietro di molto: giusto tre mesi appena.
A metà maggio, la Sampdoria aveva chiuso un tribolatissimo campionato a 36 punti, di cui gli ultimi 5 giunti da un rigore parato al 96' nel derby e da un successo a salvezza già acquisita in una gara giocata a mente leggera con la Fiorentina. Quei 36 punti, tanti quanti quelli del famigerato 2011, erano arrivati dopo molte disavventure, tra cui l'ennesimo esonero a stagione inoltrata, una costante degli ultimi anni, tolto - guarda un po' - il triennio di Giampaolo, oltre naturalmente a un inedito assoluto nella storia, cioè la decapitazione del club con l'arresto per reati societari di presidente e azionisti della quasi totalità del capitale, per una serie di provvedimenti restrittivi della libertà personale durati complessivamente dal 6 dicembre 2021 al 23 maggio 2022. Una vicenda che aveva scoperchiato la fragilità avventuristica dell'assetto economico della società.
A proposito di allenatori, la stagione era nata male fin dalla scelta del successore di Ranieri, rifiutatosi di restare a ingaggio dimezzato. Erano stati sondati alcuni tecnici, ma tutti - a partire da Dionisi - avevano rifiutato fiutando che sarebbe stata una stagione pericolosa sotto il profilo reputazionale. D'Aversa era stato quindi l'ultimissima scelta, sia in ordine cronologico nell'assegnazione delle panchine di A, sia in relazione al frenetico casting precedente senza esito. Segno che non c'era la fila per venire alla Sampdoria; e anche questo dovrà pur significare qualcosa. E se non c'era coda in estate, figuriamoci con la squadra in caduta libera in classifica e con lo spogliatoio ormai privo della giusta sintonia con il tecnico. A quel punto, uno solo aveva accettato una missione che sembrava impossibile. E tra mille difficoltà l'aveva portata a termine.
La squadra che aveva fatto, a fatica e con molti rischi, quei 36 punti non c'è più. Ha perso titolari fissi come Yoshida, Ekdal, Damsgaard, Candreva e Thorsby, cinque titolari su undici quindi mezza squadra!, oltre a Sensi che in teoria era stato il rinforzo di alta qualità, rinunciando anche a Bonazzoli, Askildsen e Falcone, tre ottime alternative ai titolari. In pratica, sono stati ceduti tutti gli elementi per i quali fosse arrivata una richiesta, a parte Sabiri (rifiutati 18 milioni da una "grande") e Colley, su cui il tecnico ha posto in extremis la questione di fiducia. Inoltre alcuni attempati punti di forza come Quagliarella, Caputo e Rincon hanno un anno di più: circostanza non indifferente né irrilevante. Gli arrivi, eccettuato De Luca per via dell'infortunio, rimangono Villar e Winks, oltre a Djuricic e Leverbe. Difficile dire, oggi come oggi, che la squadra capace di 36 punti si sia rinforzata.
Un mercato così recessivo non ha radici masochistiche o, come nel già citato e famigerato 2011, fondate su tragica e presuntuosa sottovalutazione del rischio. Sono state tutte cessioni per necessità, stabilite da un CdA dalla sostanza piuttosto di Comitato di Liberazione Nazionale, sulla base della planimetria delle macerie economiche lasciate dall'ex presidente, tanto vaste e profonde da mettere a rischio, data la risaputa impossibilità strutturale di ricapitalizzare, non solo l'iscrizione al campionato successivo ma la stessa sopravvivenza della società (nella foto, il 22 settembre 1946 i giocatori blucerchiati dietro il cancello che porta al campo aspettano di giocare la prima partita della storia, allo Stadio Nazionale, oggi Flaminio, contro la Roma) . C'è chi dice, in queste ore convulse, che per farla finita con questi anni di stenti senza prospettiva sarebbe stato meglio azzerare tutto e ripartire dal basso. Sembra invece ragionevole affrontare la serie A, che -per dirla alla Catalano di "Quelli della notte" - è sempre meglio della D, sia pure in condizioni difficili, in attesa del passaggio di una cometa.
Ma quando passerà questa cometa? Fallita tre anni fa la trattativa con il gruppo Vialli, unica concreta in un mare di voci esotiche quanto farlocche, sono passati due anni e nove mesi dall'incapsulamento della Sampdoria nel trust Rosan, dieci mesi dagli arresti dei vertici della società su ordine del gip di Paola (Cosenza), eppure questo tempo sembra passato invano.
Perché è tutto fermo, malgrado il persistente prestigio di un club il cui passato glorioso era stato rinverdito proprio nell'estate dello scorso anno per alcuni dettagli della vittoria azzurra all'Europeo, evocativi in persone e località dei momenti migliori della Sampd'Oro? Perché nessuno sembra volere o potere prendere la Sampdoria, o meglio toglierla da mani rivelatesi del tutto inadeguate sotto ogni profilo?
Ci sono tre ipotesi. La prima è un sospetto. Soggetti intenzionati a comprare ce ne sono, ma non hanno la forza economica per gestire un club di serie A oppure ce l'avrebbero eccome, ma più esaminano a fondo i conti e più vengono disincentivati a un affare con troppe incognite, anche incognite a tempo. In effetti si sono visti pretendenti da teatrino dei burattini, che non mancano mai attorno alle società in crisi ma che si liquefanno non appena si chieda loro di mettere in tavola carte vere. Si è visto anche qualche aspirante compratore serio e solido, come erano gli americani di Vialli, uno dei quali infatti ha preso il Pisa portandolo in un solo torneo a livelli mai raggiunti da trent'anni, ma le buone intenzioni sembrano incagliarsi su qualche ostacolo opaco.
La seconda ipotesi riguarda le difficoltà di una vendita da parte di chi, pur impedito nella piena manovra, non vuole vendere. Un argomento che trova forza sia nei reiterati segnali di interesse e presenza attiva mandati tramite media, sia dalle asserzioni del loquace trustee che di vendere sarebbe pure incaricato: prima c'era la guerra, poi i presunti acquirenti aspettavano di capire se la squadra si sarebbe salvata oppure no, adesso il discrimine sarebbero i risultati delle prime giornate. Insomma, c'è sempre qualcosa di ostativo e il giorno giusto è sempre l'indomani.
La terza ipotesi è la più preoccupante e riguarda addirittura la vendibilità in assoluto del bene in esame. Il curriculum dell'ex dominus e gli stessi verbali investigativi dei pm di Paola delineano un metodo imprenditoriale almeno spericolato, che lascia tracce come per esempio le decine di milioni di crediti della società sportiva verso altre società in difficoltà dello stesso gruppo. Crediti quindi a rischio. Uno scenario che non tranquillizza investitori seri. La frenata del gruppo Cerberus-Redstone in tal senso molto assomiglia al silenzio eloquente di Dinan Vialli e Knaster, che dopo il ritiro unilaterale dalla trattativa in data 7 ottobre 2019 erano pure stati sollecitati dalla controparte a “dare esecuzione agli accordi”, insomma a comprare. Non è insomma rassicurante che chi più si avvicina alla realtà delle cose più finisce per allontanarsi.
A complicare il tutto, un fatto che molti avevano del tutto frainteso nella sua sostanza. Chi aveva creduto che la costituzione del trust, contenente la Sampdoria, fosse qualcosa di simile a un esproprio, non aveva capito che con quell'atto giuridico, perfettamente lecito, il proprietario di fatto aveva trovato il modo di rinviare all’infinito o quasi la resa dei conti, avendo un alleato oggettivo nei tempi estenuanti della giustizia civile italiana, non a caso indicati dalla UE come materia prioritaria di riforma nel quadro del PNRR.
Se la Sampdoria non fosse stata "imprigionata" in un trust di scopo, il passaggio di proprietà si sarebbe potuto concretizzare come sempre era accaduto, tranne che nel controverso giugno 2014: arrivava un signore che subentrava senza pagare nulla per la società, visto che si accollava debiti non più affrontabili dal precedessore, che di solito ringraziava chi lo aveva tolto dai guai di una probabile insolvenza. A poco serve ormai nel concreto, se non alla memoria storica, ricordare che una delle realtà socialmente e storicamente più importanti di Genova e della Liguria era stata messa nella disponibilità un personaggio che, lasciando perdere tutto il resto che pure sarebbe importante, in tutta evidenza non aveva la forza economica per mantenerla reggendo a eventuali rovesci. E difatti, svanita la fortuna del principiante dovuta alle eccezionali condizioni di partenza (acquisto a costo zero, debiti cancellati, dote di avviamento, garanzie pluriennali) e da alcune felici mosse di mercato, l’ha messa nelle stesse condizioni di un aliante quando si sgancia dall’aereo che lo trainava: per un po' vola anche da solo, ma poi deve atterrare e alla cloche ci deve essere un pilota col brevetto capace di evitare lo schianto. Questo senza il trust, che invece impone a un eventuale aspirante compratore di farsi carico non solo dei debiti della società, ma anche di parte di quelli di chi così l’ha ridotta.
In queste condizioni, prendersela con la presunta pochezza di calciatori e tecnico significa ignorare le straordinarie difficoltà in cui si trovano a lavorare: una squadra indebolita, una società senza risorse proprie e governata da una struttura commissariale, composta però anche da uomini ambiguamente legati a filo doppio alla gestione interrotta nello scorso dicembre, un filo svelato nella consistenza e nella persistenza dall'episodio apparentemente marginale del messaggio di auguri sul sito ufficiale a uno dei figli di Ferrero.
Sarebbe il momento, a voler bene davvero alla Sampdoria, di remare tutti dalla stessa parte, a favore della causa. Come hanno fatto i seicento indomiti trasfertisti, scesi a Salerno e tornati mortificati da un risultato terribile. Ma se proprio c'è da sfogarsi con qualcuno, si scelgano almeno i bersagli giusti.
IL COMMENTO
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