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di Luigi Leone

GENOVA - Da Venezia, dove ha lavorato da magistrato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha respinto sdegnosamente "le insinuazioni sulla volontà di porre il pubblico ministero sotto l'esecutivo", assicurando che "autonomia e indipendenza dei magistrati non sono negoziabili". Al netto di ogni altra considerazione polemica, per esempio sulle intercettazioni telefoniche, questo dovrebbe bastare a fare... giustizia di ogni tema di scontro. Invece no.

Da Genova, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, la presidente della Corte d'Appello, Elisabetta Vidali, osserva: "Per quanto riguarda il processo penale, appare evidente che l'obiettivo del legislatore non è stato quello di di semplificare l'iter procedimentale, ma piuttosto l'accelerazione delle decisioni conclusive delle investigazioni". Il riferimento è alla riforma Cartabia, che il governo vuole cambiare.

Ha ragione Nordio. Ma ha ragione pure la Vidali. No, non è un maldestro esercizio di cerchiobottismo, bensì la realtà delle obiettive difficoltà nel fare dei cambiamenti cruciali come quelli sulla giustizia. Con l'aggiunta delle umane debolezze legate alle antipatie che ognuno di noi può suscitare.

Fuori da ogni ipocrisia, Nordio può probabilmente essere un buon Guardasigilli, però ha un peccato originale: è un magistrato. Cioè è uno di coloro sui quali la sua riforma calerebbe (calerà?). Più delle sue note simpatie di centrodestra, è questo a pesare. Difatti contro certe sue considerazioni si schierano non solo le cosiddette "toghe rosse", ma pure toghe che stanno politicamente più vicine alla premier Giorgia Meloni.

Favorevoli al centrodestra, dunque, però non a Nordio. Che nell'ottica dei magistrati non si possono sovrapporre.

A questo punto il governo non può certo fare a meno di un suo ministro simbolo, altrimenti i contraccolpi sarebbero probabilmente esiziali. Però il Guardasigilli dovrà sforzarsi di far finta di non appartenere alla categoria e ascoltarla come farebbe un non appartenente al mondo della giustizia (il discorso vale paro paro per gli avvocati o i funzionari del potere giudiziario).

E qui entra in scena una come Elisabetta Vidali, un magistrato che non mi sembra abbia mai indugiato sulla ricerca della notorietà e/o su una particolare tendenza a favorire i mass media per trarne dei vantaggi. La Vidali, infatti, dice una cosa di rilevanza enorme: il problema della lentezza della nostra giustizia non lo puoi risolvere semplicemente accelerando l'esito delle indagini.

Un vecchio adagio spiega: la gatta frettolosa fa gattini ciechi. Il rischio di errori, cioè è enorme. Nel perdurare di indagini fatte con i tempi che abbisognano, essi si potrebbero forse accorciare dotando la giustizia di magistrati, impiegati e strumenti che oggi, per  la esplicita ammissione di tutti, sono carenti. Carentissimi. Difatti basta un "processone" come quello del Morandi per mandare in tilt un sistema giudiziario quale quello genovese. Che è il paradigma del sistema italiano.

Uso il forse nell'immaginare una soluzione perché non sono un tecnico. Faccio ricorso al buon senso. Ma questo a un ministro non può bastare. Deve usare al massimo la funzione dell'ascolto e deve farlo sentendo prima di tutto proprio le toghe. In ogni ambito vale la regola che la politica dovrebbe sentire chi sta sul campo per prendere le proprie decisioni e questo vale anche per i magistrati.

Vale tanto di più, mi vien da concludere, se bisogna fare una riforma che impatterà sulla vita di ognuno di noi. Io rimango dell'idea che sarebbe stato più facile se il ministro non fosse stato una toga. Ma di sicuro Nordio non dovrà commettere due errori: ritenere di avere la verità in tasca e, di conseguenza, chiudersi sotto una bolla di cristallo.

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