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di Stefano Rissetto

Domenica scorsa, dopo l’arrivo della Gent-Wevelgem, ho pensato a Biniam Girmay. Chi è? Semplicemente, è l’anticipo di quel che diventerà il ciclismo, quando avrà incontrato l’Africa. 22 anni, eritreo dell’Asmara, secondo ai Mondiali giovanili del 2021 a Lovanio, è un predestinato. Difatti, lo scorso anno, Girmay è stato il primo corridore africano a vincere una classica storica, come appunto la Gent-Wevelgem. Al Giro d’Italia lo si è visto poco per una disavventura fantozziana: colpito all’occhio dal tappo dello spumante dopo la vittoria di tappa a Jesi, in volata davanti a quel Mathieu van der Poel fresco vincitore dell’ultima Sanremo, dovette ritirarsi deludendo i molti emigrati eritrei che lo aspettavano all’arrivo delle tappe successive, compresa Genova dove a De Ferrari i connazionali di Girmay erano più numerosi degli italiani.

Ecco, lo scorso anno Girmay la Gent-Wevelgem la vinse sudandosela, davanti al francese Christophe Laporte che domenica scorsa se l’è vista invece regalare dal suo capitano Wout van Aert. Scappati insieme dal gruppo in una giornata invernale e quindi infernale, si sono trovati da soli sul traguardo e il fiammingo, che l’aveva già vinta due anni fa davanti al nostro Nizzolo, ha frenato per far vincere il francese. Alla faccia di tutti quelli, e sono tanti i campioni veri basta scorrere l’albo d’oro, che l’avevano vinta senza concessioni di varia motivazione.

Succede, nel ciclismo, che un capitano conceda una vittoria di tappa al suo gregario che per lui si era spolmonato: qualcuno ricorderà pure la tappa dello Stelvio al Giro del 1980, quando Bernard Hinault lasciò passare per primo sul traguardo il suo scudiero Jean René Bernaudeau. In altre occasioni, ci si spartisce maglia e tappa: è successo l’ultima volta proprio domenica scorsa al Giro di Catalogna, quando sul traguardo del Montjuich lo sloveno Primoz Roglic non si è dannato più di tanto per contendere la frazione a Remco Evenepoel, primo a Barcellona ma secondo nella classifica finale.

Ma il “regalo” di una nobile classica come la Gent-Wevelgem è semplicemente incomprensibile, per non dire antisportivo. Si corre per vincere, nel ciclismo il secondo è il primo dei battuti. Stupisce poi che un gesto del genere sia arrivato proprio da van Aert, che in carriera è arrivato secondo talmente tante di quelle volte che ci si deve essere affezionato, al Mondiale di Imola era riuscito a mettersi al collo la medaglia d’argento sia nella prova a cronometro che in quella in linea, rispettivamente dietro Ganna e Alaphilippe. Ma stavolta non era proprio il caso scegliesse di non vincere. Primo perché appunto, indirettamente, fa un torto a Girmay e a tutti gli altri vincitori, disfacendosi con noncuranza di un obiettivo che hanno invece onorato i primatisti di successi, tre, come Eddy Merckx, Mario Cipollini, Rik van Looy, Tom Boonen e Peter Sagan. Per dire il valore storico di questa corsa. Il torto poi lo ha fatto a se stesso, perché a 28 anni van Aert ha vinto poco, rispetto al talento immenso frenato da uno stile di corsa meraviglioso al vedersi ma forse poco redditizio: tra le Monumento si è preso soltanto la Sanremo del 2020, corsa in piena estate e anche nel Basso Piemonte, con via Roma deserta per la volata con Alaphilippe.

Può darsi che Laporte restituisca a van Aert il favore di Wevelgem. Ma come? Resta che questi finali di corsa zuccherosi non sono allineati con lo spirito di uno sport che è fatto anche di colpi bassi. Il “tradimento” di Beheyt a Salò ai danni di van Looy, le fregature inflitte da Duclos Lassalle a Ballerini e da Knetemann a Moser rispettivamente alla Roubaix e al Mondiale. E quanti altri ancora.

Meglio un fiotto di ribalderia che tutta la melassa di domenica scorsa. Nel professionismo non è contemplata la mancanza di rispetto verso un albo d’oro, per quanto temperata da un gesto di amicizia. Certo, niente al confronto di quanto accadde nel 1996 al velodromo di Roubaix. Agli ultimi due giri di pista erano arrivati tre corridori della Mapei, l’ultima squadra italiana di livello mondiale, e il più forte era il fiammingo Johan Museeuw, scortato dagli italiani Gianluca Bortolami e Andrea Tafi. Dall’ammiraglia, il terribile ds Lefevére, previa telefonata con il patron Squinzi, diede l’ordine di rispettare le gerarchie di squadra, rese comiche da una successiva foratura del belga con gli altri due tapini ad aspettare. Pare che Tafi volesse giocarsela, poi però non lo fece e quindi sopravvisse. Ma andavano squalificati tutti e tre. Anzi cinque. Non si era mai vista una corsa, la Roubaix poi che è la più bella e feroce di tutte, decisa dalla telefonia cellulare.