Potrà piacere o non piacere. Al Cavaliere piaceva, ma senz’aglio. Il pesto, intendo. I fedelissimi genovesi, quando arrivava per un comizio o per lanciare una campagna elettorale, volevano fargli provare le specialità locali. Quindi logico che sulla tavola arrivasse il condimento genovese per eccellenza. Che per tradizione ha dentro l’aglio, che, si sa, spesso “viene su” e che non allieta l’atmosfera di chi sta vicino, magari per una conversazione confidenziale, riservata. Silvio decise che il pesto andava benissimo, ma rigorosamente senz’aglio. Confesso che io lo avevo sempre mangiato con lo spicchio schiacciato, ma da quel giorno mi sono adeguato alla volontà del Cavaliere. Forse una delle poche prerogative che ho condiviso con il fondatore di Forza Italia, a parte riconoscere l’innata cordialità del leader forzista.
Che metteva a suo agio il giornalista, trattandolo come se l’avesse conosciuto da decenni, avessero studiato insieme dalle suore, e insieme fatto, chissà, altre esperienze, magari suonando in un pianobar o su una nave da crociera, le canzoni di Juliette Greco.
Al G8 del 2001 lasciò il suo segno anche a tavola. Gli organizzatori volevano affidare i menu a cuochi nazionali, così ci fu la rivolta degli chef liguri, giustissima, che ottennero di preparare pranzi, cene e cenette per il premier, Berlusconi appunto, Blair, Bush, Putin, Chirac, Koyzumi, Schroeder. Tanto pesto, ma senz’aglio, pesce alla ligure con olive e capperi, leggeri ravioli di branzino, torte pasqualine.
Il premier voleva sapere tutto, dalla A alla Z, e su tutto metteva il suo imprimatur. Sui menu e sui colori degli arredi, sugli abiti del seguito e sui quadri appesi nei saloni.
Nei suoi anni di potere e governo la politica italiana si identificò spesso con la cucina. Dal famoso “patto della crostata” tra Berlusconi e Massimo D’Alema che segnò un tentativo bipartizan di mettere mano alla Costituzione, all’ “incontro dello Sciacchetrà”, tra il leader azzurro e il presidente della Banca d’Italia, Antonio Fazio. I due si videro a Villa Certosa in Sardegna auspice, con preziose bottiglie portate dalle Cinqueterre, il parlamentare ligure Gigi Grillo.
I suoi “guardiani”, prima di un’intervista, ti interrogavano sommessamente: che argomenti avresti trattato, quali domande, dove, per quanto. Una delle ultime interviste che gli feci a Genova, primi anni Duemila, non ricordo in occasione di quale campagna elettorale, probabilmente elezioni europee, dal suo ufficio stampa mi giunse la cortese raccomandazione di “chiedergli poco su Genova. Tieniti più sull’internazionale”. A me, francamente, dell’internazionale interessava poco o niente, stando a Genova e facendo la chiacchierata per una emittente genovese e ligure.
Era stata scelta come palcoscenico una bella sala della Prefettura con alle spalle una bandiera dell’Europa. Con me come operatore un collaudatissimo Francesco Righi, allora ancora dotato di una abbondante e vasta capigliatura.
Arrivò Berlusconi sempre sorridente. Si sedette. Io, un po’ malignetto gli annunciai subito: “I suoi, presidente, mi dicono che lei non ha voglia di parlare di cose genovesi?”.
Il Cavaliere sgranò gli occhi. “Ma vuole scherzare? Mi prende pere scemo? E allora di che cosa parliamo qui a Genova?”. L’intervista fu tutta genovese, ci mancava solo che gli ponessi qualche domanda in dialetto. E Berlusconi rispose su tutto.
Al termine ci salutò, poi si rivolse a Righi che stava smontando la telecamera.
“Francesco, ascolta… - gli chiese – La prima volta che vai dal barbiere, dopo che ti ha tagliato i capelli, falli impacchettare per bene e mandameli ad Arcore per favore!”.
IL COMMENTO
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