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di Franco Manzitti

Cinque anni dal giorno maledetto del crollo del Ponte Morandi sono tanti, un abisso di tempo affannoso e pieno di tanti eventi e anche un lampo se pensiamo a quel dolore per le 43 vittime che non si spegne, a quel processo che va avanti come se fosse cominciato ieri e ancora zeppo di attese.

In questi cinque anni Genova è cambiata radicalmente e proprio partendo da quel crak terribile. Questa è la considerazione che mi viene da fare subito. Avere ricostruito così velocemente ha creato la figura di Marco Bucci, come non era immaginabile, costruendo un “modello Genova”, che solo ora e non certo per colpa dei genovesi scricchiola un po' in un mare di parole. Nello stesso tempo la distruzione con la città, la Liguria, il Nord Italia, il Sud Europa, spaccati in due per anni e mesi, ha rivoluzionato il sistema delle infrastrutture. Noi subiamo da allora e di contraccolpo q quella tragedia il più grande blocco di comunicazione che un territorio abbia mai sopportato così massicciamente e così a lungo.

I cantieri che ci affliggono e che ci affliggeranno per chissà quanto e in che modo derivano da lì. Dalla scoperta della vergognosa mancanza di manutenzione dei concessionari di allora parte un'operazione sempre più invadente e preoccupante che moltiplica per mille la tragedia, chiarendo quante volte potrebbe essere accaduta nella nostra rete. E quanto immane sia la responsabilità dei concessionari, non certo penalmente, ma strutturalmente e anche eticamente responsabili. Una colpa incancellabile.

Cinque anni dopo la figura dei concessionari, dei loro dirigenti, dei loro funzionari, a incominciare da quel Mion, uomo di fiducia dei Benetton, è precipitata all'Inferno. In quale girone li avrebbe messi Dante, tornato di modo in questi tempi di cultura capovolta? Cinque anni dopo i Benetton, grande famiglia di imprenditori allora conosciuta sopratutto per le loro attività tessili, si sono sbriciolati, il loro aplomb veneto-italiano di statura elevata si è disintegrato fino a rendere quasi impronunciabile il loro cognome.

In questi cinque anni il concetto di infrastruttura a Genova è cambiato e non solo perchè quel crollo straannunciato ha prima spezzato veramente la città, ma perchè la operosità e la coscienza dei genovesi ha fatto riscattare gli anni precedenti, nei quali la percezione di quella fragilità non era mai emersa e mai contrastata da nessuno, se non in velleitarie sequenze di progetti.
Siamo coscienti di essere isolati e in parte di esserlo già stati prima senza fare nulla per ovviare a una “discontinuità territoriale” denunciata spesso ma mai combattuta.

Oggi le infrastrutture sono da una parte l'urgenza numero uno e dall'altra l'ossessione di obiettivi lunghi e costosi da raggiungere,
Aspettiamo la fine del processo, che sarà solo una tappa di un tempo infinito. Aspettiamo che qualcosa cambi l'altro processo che ha fatto indegnamente guadagnare ai colpevoli miliardi per una tragedia che è sulle loro spalle e su quelle di chi non controllava, ministri, capigabinetto, alti funzionari, ispettori che irridevano i controlli, con quell'immagine simbolo di chi entrava a visionare le gallerie, cantando la canzone ispirata dal nome del tunnel.

Siamo più stanchi e più infuriati di cinque anni fa, perchè la grande ingiustizia cresce con il tempo che passa e quel ponte nuovo, simbolo della riscossa non cancella, risolve solo il più urgente dei problemi che la città spaccata aveva posto.
Cinque anni dopo, se andiamo nel Parco della memoria che aspetta ancora la sua definitiva realizzazione, sentiamo solo un groppo in gola. Che non si scioglie. Cinque anni dopo il 14 agosto 2018, ore 11,36, Ponte Morandi, Viadotto Polcevera, Genova, Italia, Europa.