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La grande crisi del porto di Genova a metà degli anni ’80 ha visto sul palcoscenico due straordinari personaggi. Da una parte il presidente del Cap, Roberto D’Alessandro che il premier Bettino Craxi mandò a Genova per realizzare la privatizzazione dei moli. Contrapposto al console della Compagnia unica dei “camalli”, quel Paride Batini che era anche uno dei più ammirati leader comunisti dell’epoca.

Al Cap D’Alessandro aveva preso il posto di Giuseppe Dagnino, filosofo socialista, raffinato intellettuale. Ma la crisi andava risolta con energia e managerialmente. E D’Alessandro aveva avuto questo delicatissimo incarico.

Paride Batini, non era soltanto un capo dei camalli, ma era destinato a diventare una figura leggendaria non solo in porto, per la tutela del monopolio del lavoro in banchina che i lavoratori difendevano da secoli con una “riserva” di ferro che allora era entrata in discussione.

Con Franco Manzitti e i nostri ospiti, Antonio Benvenuti console della Culmv e l’imprenditore Filippo Schiaffino, parleremo di questi due mitici leader nella seconda e ultima parte di “Ti ricordi?” dedicata appunto alla grande crisi sui moli genovesi.

O il porto si modernizzava, accettando di trasformarsi in una impresa o era destinato a morire.

Fu un vero e proprio diktat di Craxi a imporre D’Alessandro, grande manager in importanti aziende pubbliche e private, genovese di origine, figlio di un generale dei Carabinieri. Per protesta Duccio Garrone, allora potente presidente degli Industriali si dimise (poi tornò sui suoi passi). Una mossa politicamente dirompente per una scelta dall’alto e certamente autoritaria che poi si rivelerà azzeccata.

Semmai furono i socialisti a restare spiazzati perché quella poltrona era stata già “prenotata” per Delio Meoli, uno dei leader più potenti del Garofano, che D’Alessandro in qualche maniera aveva scavalcato.

Ti ricorderai, caro Franco, che Il Psi, che allora aveva un grande potere, vide uscire di scena il professor Dagnino, che era stato a Palazzo san Giorgio ben 17 anni e che scelse teatralmente di dimettersi il 14 luglio, data di presa della Bastiglia per sottolineare come si riteneva “deposto” con quella decisione e arrivare D’Alessandro con il suo bagaglio da manager in Italsider, poi alla Zanussi, alla Pirelli, alla Fiat, che gli aveva affidato la Fabbri editori.

Paride Batini era nato nel quartiere che si chiama Arizona. L’ho scoperto soltanto nel 2009 quando morì il leader dei camalli. E’ in Valbisagno, via Sertoli, sotto il ponte-sifone sul torrente Geirato a Molassana. All’Arizona ci avevano messo gli anarchici e il padre di Paride Batini era un anarchico, uno di quei sovversivi che se arrivava Mussolini finiva in carcere preventivamente perché così i fascisti stavano tranquilli. I figli di questi signori crebbero correndo sulle rive del torrente Bisagno. E Batini lo racconta nel suo appassionato libro L’occasionale. 

Quando è morto hanno scritto fiumi di parole su di lui usando i soliti aggettivi: ruvido, roccioso, con la faccia da attore americano su un’anima profondamente comunista.

Durante la grande crisi il sindaco di Genova era un farmacista repubblicano di nome Cesare Campart che non sapendo più che cosa fare si affidò al potentissimo e eterno cardinale Giuseppe Siri. Che fece da mediatore super-partes tra i camalli e D’Alessandro. Siri rivelò al giovane leader comunista Claudio Burlando la cronaca di quell’incontro. Eccola. Il segretario della Curia avvertì l’arcivescovo che c’era in portineria Paride Batini che avrebbe voluto parlargli. “Fatelo entrare” rispose il vecchio cardinale. “Ma sono in tanti”. “E fateli entrare tutti!” Così intorno al tavolo dell’arcivescovo, rappresentato spesso come il baluardo della destra più conservatrice e retriva della Chiesa internazionale sedettero il console e i suoi uomini da una parte e dall’altra quel principe della Chiesa che per tre volte rischiò di diventare Papa, ma uscì dal Conclave sempre cardinale. Che però si occupò molto della sua città e delle sue fabbriche e che istituì i cappellani del lavoro.
Discussero in genovese stretto come faceva sempre Siri con gli operai e con i medici del Galliera il “suo” ospedale e ci fu la mediazione che portò allo sblocco dello stallo in porto, anche se poi fu soltanto una tregua.

Ma fu divertente ciò che il cardinale disse a Batini. “Se sei vegnuo da mi veu dì che s’è proprio ma piggé”, se siete venuti da me vuol dire che siete davvero mal presi.
Mi ha raccontato ancora Burlando che Batini era un forte giocatore di scopone, ma preferiva stare al tavolo con i compagni. C’era un grande e indimenticabile armatore genovese, Giorgio Messina, che voleva sfidarlo, ma Batini lo evitava perché secondo i suoi principi non gli sembrava giusto giocare allo stesso tavolo con gli “avversari”. Finché un giorno Messina disse: se non vuole giocare con me vuol dire che ha paura di perdere. Allora il console accettò la sfida. Messina gli spiegò che lui e i suoi amici giocavano al ristorante “Bai” di Quarto e poi lì cenavano e chi perdeva pagava la cena per tutti. Batini andò, giocò e vinse. “Tante a poche” cioè con un notevole margine di distanza. A un tratto il console si alzò e andò alla cassa. Messina lo chiamò. “Ma che cosa fa?”. “Ho pagato per me e per il mio compagno. Lei paghi per sé e per il suo”. L’armatore gli ricordò che i patti erano diversi: chi aveva perso doveva pagare per tutti: E Batini: “No, io pago la mia parte perché siete tanto grammi a carte (scarsi) che se non facessi così mi sembrerebbe di avere rubato!”.

D’Alessandro e Batini, Quasi coetanei e così diversi si ergevano come comandanti su barricate contrapposte. Ma in fondo erano due uomini anche un po’ soli che si fronteggiavano. D’Alessandro, invidiato dai politici che temevano la sua trasbordante popolarità. Ti ricordi, Franco, che alcuni politici si lamentavano con noi di non essere stati ancora “D’Alessandrati”, di non avere avuto ancora tanto spazio come lui sul giornale.

E Paride Batini aveva alle spalle il sindacato non certo tutto unanime nella battaglia e il Pci, in piena evoluzione pre- Bolognina con cambio del nome, che discuteva animatamente se spendersi completamente per lui o se tenere la distanza da una costola troppo indipendente. E’ stato un grande scontro politico, non solo tra due “campioni”.

In ogni caso quell’incontro in Curia dal cardinale si animò dopo la storica frase di Siri appena entrò il presidente del porto: “ Guarda che anche loro devono mangiare”.
La tregua fu firmata, ma non spense la contesa.

Perché il processo di trasformazione di D’Alessandro andrà avanti, anche quando a lui succederà a Palazzo san Giorgio Rinaldo Magnani, l’ex presidente della Regione, anche lui socialista e soprattutto ex portuale come console dei carenanti. Siamo già negli anni Novanta e la privatizzazione delle banchine preparata dalla rivoluzione di D’Alessandro è ormai alle porte.

E credo, caro Franco, che quello che fu firmato allora, dopo aspre lotte proprio oggi, in queste ore, stia tornando di scottante attualità.