
Ma che Genova era quella città oggi misteriosa e così diversa dell’anno nel quale in giornate caldissime di fine giugno arrivarono a suonare proprio qua i Beatles?
Mancavano tre anni al mitico Sessantotto, che tanto avrebbe sconvolto il mondo e anche la nostra città e Genova stava prosperando sulla coda di un miracolo economico oramai in fase di sfioritura, come forse mai più nel Dopoguerra dal quale si era finalmente usciti. Gli “scarafaggi di Liverpool” scelsero Genova nella loro tournée italiana proprio per come la città era allora, come Ferdinando Fasce ci spiega anche nella seconda puntata di “Ti ricordi?” dedicata a quella tournée, che va in onda lunedì sera su Primocanale.
Così somigliante, Genova, alla loro Liverpool con quel grande porto, con le fabbriche, non certo per il clima ben diverso tra la costa ligure e la grigia terra inglese anche nelle stagioni più favorevoli. E poi la scelsero forse perché Genova si porta da tempo e anche immeritatamente e non tanto spiegabilmente la fama di città più inglese d’Italia. Fatto sta che i “favolosi quattro” arrivarono in Italia solo a Milano, Roma e Genova per suonare non più di quattro ore e mezzo in tutto una musica che avrebbe conquistato e ancora conquista il mondo, “la più grande leggenda di popolar music della seconda parte del Novecento”, come scrive ancora Ferdinando Fasce nel suo “Beatles in Italy “, appena pubblicato da De Ferrari.
A Genova i ragazzi inglesi suonano in realtà ancora meno che nella media delle altre città italiane, in due concerti velocissimi nel Palasport oggi appena risorto e allora a pochi anni dal suo lancio e a pochissimo dal suo battesimo come palcoscenico musicale.
Era questa Genova una città esasperatamente zeneise, se si può passare questa definizione, vicina al massimo della sua popolazione, oltre ottocentomila abitanti, nel pieno della sua grandezza industriale e portuale, anche se con le banchine piene di conflitti, quando la Culmv aveva il massimo della sua potenza numerica. Tra consortili e camalli nel porto brulicavano più di quindicimila lavoratori. Era il primo scalo del Mediterraneo e il suo indotto era immenso e prevalentemente di lingua inglese negli affari e negli studi di avvocati marittimisti e di broker.
Era anche una città di grandi armatori nel fulgore della loro espansione. Basti pensare che i Ravano avevano allora più di 65 navi, i Cameli crescevano e i Fassio varavano una nave dopo l’altra. E i Costa erano il prototipo di grande famiglia italiana impegnata sul mare e non solo.
Le grandi famiglie dominavano una scena industriale di grande riconversione postbellica, nella quale l’IRI stava per trasformare la Superba nella capitale dell’Industria di Stato.
E la musica? Non eravamo ancora la città dei cantautori, ma i germi c’erano già eccome. Gino Paoli aveva scritto “La gatta sul tetto che scotta”, lancio della sua infinita carriera, già nel 1960 e Fabrizio De Andrè stava facendo conoscere il suo primo grande successo, “La ballata del Michè”, scritta da tre anni, ma non ancora diventata di moda.
E allora come potevano sfondare i Beatles, i”capelloni” previsti in quelle due performance di fine giugno, con la loro musica rivoluzionaria e il loro look che avrebbe affascinato una generazione intera? Milano li aveva ridimensionati?
Così dicono le cronache della precedente uscita rispetto a quella genovese. Genova, invece, li avrebbe coinvolti molto di più e non solo per quella similitudine con Liverpool portuale, ma anche per gli spazi di libertà, che si sarebbero presi un po’ di più rispetto alle tournée così incalzanti e piene di impegni dei quali si erano lamentati, come racconta ancora Fasce nelle testimonianze da lui raccolte tra chi ha avuto la fortuna di incontrare dal vivo in quelle giornate genovesi i “zazzeruti”, come li definivano le cronache di quel tempo.
Che fossero cronache interessate molto al nuovo fenomeno lo racconta anche il fatto che a scrivere di quella parentesi genovese ci fu anche un giovanissimo Gianni Minà, inviato a Genova proprio per scoprire “gli scarafaggi” inglesi.
È molto divertente ripescare la cronaca genovese dell’evento (allora non si chiamava così) pubblicata da “Il Secolo XIX”, allora 103 mila copie al giorno, da “Il Lavoro” allora foglio fieramente socialista, diretto da Pertini, 41 mila copie e dal “Corriere Mercantile “ di proprietà dei Fassio.
I giornali tengono tutti una linea che ridimensiona l’attesa, ma non può del tutto ignorare i sintomi di un fenomeno nuovo, che scuote la generazione più giovane, che “si scalmana”, ma senza eccessi di massa. “Il Lavoro” scrive che “ancora una volta Genova si è dimostrata città tranquilla e priva di manie “fluorescenti”….. ”Sorrisi e canzoni “parla di uno svenimento di una quindicenne, ma poi sembra che si tratti di una montatura….
Insomma questa indifferenza un po’ c’è , un po’ no, ma i due concerti lasceranno segni profondi, convertiranno molti ragazzi a una musica nuova, rivoluzionaria, inventata da quei quattro che la Regina Elisabetta ha appena nominato “baronetti”, non senza sollevare in patria obiezioni e distanze.
L’understatement genovese e ligure resiste eccome, se una firma come quella di Mario Fazio sulla “Stampa” scrive un pezzo intitolato “”Inutile fuga dei Beatles a Genova, mentre nessuno cerca di inseguirli”.
Rivivere quell’episodio, che è rimasto poi come un fatto epocale nella cronaca cittadina, mostra non solo la nascita di un fenomeno musicale senza paragoni, ma ripesca una città così diversa da quella che viviamo oggi. Anche per questo vale la pena lunedì sera alle 22,30 di vedere su Primocanale la seconda puntata sui Beatles di “Ti ricordi?”, un programma scritto da me e da Mario Paternostro. Ricordate ancora lunedì ore 22,30…
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IL COMMENTO
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